Gli scenari che si prefigurando adesso sono i più vari, dalla morte del social network uber-aggregatore alla sua riduzione fino all’integrazione dentro la tentacolare creatura di Mark Zuckenberg.
Una bella notizia per Twitter, quindi, anche se -a partire da Google- ormai giustamente si fa a gara per prendere per il culo i cingettii e i loro fanatici:
Come da canonico paese reale, oggi il sottoscritto (e, a quanto ne so, una buona porzione degli altri simpaticoni che scrivono su queste pagine) va in ferie. Il blog rimane aperto e attivo ma, presumbilmente, in modalità più lenta del solito.
Prima di gettarci nelle autostrade a bollino nero, di testare sulla nostra pelle il caro-benzina, gli overbooking di Alitalia o le infide regole bulgare delle compagnie low-cost e di fuggire a rosolarci su qualche spiaggia, è inevitabile la segnalazione di un paio di pezzi che stanno facendo da colonna sonora alla mia Estate 2009. Curiosamente, i due pezzi che sto ascoltando di più provengono da band con nomi molto simili e sono l’espressione più pop di proposte che, in entrambi i casi, si muovono per lo più su sonorità psichelediche, sognanti e shoegazer.
Avrete probabilmente già sentito parlare dei The Pink Mountaintops, il collettivo canadese (da cui sono nati i più famosi Black Mountain), ma forse, come a me, vi era sfuggita la gemma pop contenuta nel loro ultimo album Ouside Love. E’ bastato vedere l’effetto che The gayest of sunbeams fa alla pista della spiaggia dell’Hana-bi di Marina di Ravenna per dedicargli gli ascolti che merita e innamorarmi del suo mix di jangling guitars, beat implacabile e singalong irresistibile. La la la la la la la la la.
Non è invece ancora uscito il disco d’esordio dei The Big Pink, ma manca poco. Il marchio 4AD e i vari post scritti da Emiliano su Stereogram sono garanzia di qualità, anche se dopo un paio di ascolti il disco non mi ha detto granchè. Mi ha invece fatto secco la versione editata del singolo Dominos, anthem glorioso e corale con una ritmica grassa che ricorda la hit Time to pretend degli MGMT, e un ritornello («These girls fall like dominos») fatto apposta per fare da colonna sonora ai momenti più vitelloni della vostra Estate in riviera. E appena riesco la proverò sul dancefloor, ho la sensazione che potrebbe fare il botto.
Qualche mese fa, alla notizia che Johnny Marr abbandonava (non si è mai capito se temporaneamente o meno) i Modest Mouse per entrare nei The Cribs, il sottoscritto, come molti, ha storto il naso. Mr. Marr (già chitarrista di quell’inutile gruppetto minore chiamo Smiths) viaggia a un livello a cui non deve dare spiegazioni a nessuno per le sue scelte ma ecco, abbandonare una band creativa e di successo (e molto diversa dai suoi progetti precedenti) per un gruppetto inglese non particolarmente bravo nè famoso non sembrava proprio una grande mossa. La speranza era che Marr intravedesse nella band potenzialità a noi ignote e che, con il suo aiuto, i Cribs sarebbero arrivati a fare grandi cose.
Il disco che sancisce il nuovo corso della band (Ignore the ignorant) esce tra circa un mese, ma qui sotto potete vedere il video del primo singolo Cheat on me, appena diffuso online. Ancora l’ho ascoltato solo un paio di volte quindi potrei cambiare idea, ma a occhio mi sa tanto che la nostra sensazione iniziale era giusta.
Una delle cose più fastidiose dell’altrimenti favoloso servizio di posta GMail (oltre al fatto di dare alla Big G le chiavi della nostra privacy, ovviamente) sono le pubblicità che compaiono nella colonna di destra. Si tratta di pubblicità contestuali: se nelle mail che mandate e ricevete si parla di andare in vacanza in Sardegna, compaiono molte pubblicità di hotel e campeggi della Costa Smeralda. Se parlate di film e serie tv vedete un sacco di pubblicità di cofanetti in DVD e pay tv. Se parlate di qualcosa da fare alla fine dell’anno, ecco i messaggi su decorazioni natalizie e pacchi regalo (anche ad Agosto).
Come smettere di visualizzare la fastidiosa colonna pubblicitaria? Un tizio ha fatto un po’ di esperimenti (poi ripresi ed estesi da mezza rete), e ha scoperto che, se all’interno delle mail sono presenti alcune parole chiave dal significato particolarmente negativo (lui ha provato con Suicide, Death, 9/11 e Murder), le pubblicità curiosamente non compaiono. Paura di essere inopportuni?
Il trucco funziona anche in italiano, pare (ha fatto qualche prova il -ridisegnato- Punto Informatico), anche se putroppo il ricorso sistematico ad esso (se le parole infauste sono inserite come firma della mail o hanno dimensioni molto piccole, o non ricorrono abbastanza spesso nelle mail lunghe) non funziona. Sarebbe stato un bel metodo situazionista e inutilmente complicato per liberarsi degli ads (fingendo che Adblock plus non esista) mentre così è ‘solo’ l’ulteriore testimonianza di quanti dettagli una web application di massa debba essere in grado di gestire.
Polly Jean Harvey nella sua carriera ne ha fatte davvero di ogni. Tra le altre cose (e più o meno in ordine) è stata nuova promessa dell’alternative rock femminista, controversa e rumorosa mangiauomini, romantica e disperata femme fatale con parrucca e ciglia finte, timida ragazza acqua e sapone della campagna del Dorset, socialite mondana della Grande Mela, rude e androgina blueswoman e esangue e perduta dama dell’ottocento.
Da una come lei ci si può attendere di tutto, quindi. Ma non so perchè quando ho sentito uno dei nuovi brani che ha suonato la settimana scorsa al Camp Bestival di Lulworth (nel Dorset, praticamente dietro casa sua) sono rimasto piuttosto sorpreso.
Let England shake è interamente costruita sopra il campionamento del ritornello della celeberrima Istanbul (Not Constantinople), classico swing fintamente esotico degli anni ’50 portato al successo dal gruppo vocale The Four Lads, su cui Polly canta un’altra melodia suonando quella specie di incrocio tra una cetra e un’arpa (l’autoharp) che già aveva usato per alcuni pezzi di White Chalk.
Il risultato è molto spiazzante (a me, non so perchè, fa venire in mente le prime Cocorosie) ma è anche PJ Harvey al 100%. Sono molto, molto curioso di vedere se questa strada verrà seguita e dove la porterà. Video:
Questa è in assoluto la cosa più bella che vedrete prima di partire per le ferie: Bobby McFerrin spiega il potere della scala pentatonica durante una conferenza del 2009 World Science Festival su "Note e Neuroni".
Non c’è modo migliore per cominciare la settimana dell’annuncio di un concerto a sorpresa di uno dei più osannati cantautori folk della nostra generazione. Stasera, gratis, Bonnie Prince Billy all’Hana-bi di Marina di Ravenna.
come un fulmine a ciel sereno come una rete a tempo scaduto come un lupo in una notte di luna piena
will oldham bonnie prince billy live@hana bi lunedì 3 agosto
ingresso gratuito
Will Oldham – guitar/vocal Cheyenne Mize – feedle/vocal Emmett Kelly – guitar/vocal
Non era esattamente imprevedibile, l’evoluzione fighetta e tropicale dei Friendly Fires. Gli autori di uno dei dischi più divertenti della scorsa Estate (ne parlammo qua) avevano fin dall’inizio nel DNA una spiccata attitudine al pop da ballo più spudorato, che riuscivano però a mediare con influenze punk-funk e synth balearici un po’ più originali.
Ma la deriva percussiva era dietro l’angolo, come ha potuto notare chi ha assistito a uno dei vari live in cui il singolone Jump in the pool terminava in una samba scatenata e sul palco venivano invitate delle ballerine brasiliane con le piume e tutto il resto (video). Prendete la passione per le percussioni tropicali, sommatela con quella per i synth balearici e per il pop da ballo e avrete Kiss of life, il nuovo singolo della band che verrà pubblicato a fine Agosto (sarà una delle bonus tracks della ri-edizione del disco d’esordio) ma di cui è da poco stato presentato il cui patinatissimo video girato a Ibiza.
Dev’essere il caldo, dev’essere il sole e dev’essere il weekend che si avvicina, ma anche se è un pezzo che mi fa spesso arricciare il naso, non mi dispiace tanto quanto dovrebbe. E’ Estate, dai.
E dire che io non ci speravo più. La supposta commedia indie americana (si accetti la definizione come una semplificazione) secondo me aveva toccato il fondo con Nick & Norah’s infinite playlist: un’ora e mezza di vuoto con un burattino e una tipa yeah che si dicono banalità mentre in sottofondo passa tutta la musica più hip del momento. Un’ora e mezza con il potere di farti sentire puntato, targettizzato, inscatolato e rivomitato da uno che a giudicare dalla profondità a cui arriva probabilmente ha mirato giusto alle tue Converse.
E se la commedia americana, perso il tocco leggero di Cameron Crowe (che da Elizabethtown – un film che è piaciuto solo a me tra tutte le persone che conosco con un quoziente intellettivo superiore a quello di un bonobo – non si è più ripreso, a giudicare dall’attuale inattività), si è arroccata sempre di più sui suoi macrogeneri (la commedia vaginale, per rubare una definizione che credo sia del Maestro, i film con Matthew McConaughey, che fanno sottogenere a sé per insulsaggine e scipitezza, e la slapstick frat-pack comedy alla Apatow, che al sottoscritto ha sempre fatto insopportabilmente pena), i segnali d’allarme della vena para-Sundance si vedevano secondo me (e non penso di essere il solo) già nell’apprezzatissimo – da molti che non sono me –Juno. Personaggi con la profondità della carta velina, dialoghi quirky a costo di rinunciare ad ogni svolgimento narrativo apprezzabile, grosso lavoro di scenografia per collezionare gli improbabili feticci dell’indie-wannabe (per andare sull’ovvio scarpe, tracolle, magliette, occhiali buffi, poster, ma anche telefoni a forma di hamburger, auto scassate, gadget improbabili – chessò, pipe); insomma delle enormi confezioni per accompagnare chili e chili di musica bellissima, bella, carina, osannata da Pitchfork, osannata da NME, osannata da quel dj convinto che il ritornello di Panic dica “I’m the dj, I’m the dj”*.
E solo ora che scrivo mi vengono in mente Little Miss Sunshine e Me and You and Everyone We Know, due ottimi esempi di come la percezione comune dell’attitudine arty sia direttamente proporzionale all’insensatezza dei dialoghi e alla pochezza della trama, nonché di come il fenomeno sia molto meno recente di come la sto mettendo io – ma non approfondirò, perché non voglio scrivere le solite venti paginate, e mi limiterò ad accennare che potrebbe essere la stessa pericolosa china del feticismo esasperato dell’ultimo Anderson. Se ancora non capite dove voglio arrivare, a me sembra che la direzione della commedia indie contemporanea sia questa (io l’ho scoperto grazie alla Fagotta, che ringrazio – sempre):
e ammettetelo, fa paura.
Però ho avuto modo di vedere recentemente (e quasi di seguito) ben due film che mi hanno fatto cambiare idea.
Il primo, che mi sento di definire senza remore una tradizionalissima commedia romantica appena spruzzata da sfumature ind… quelle là, è How To Lose Friends And Alienate People. Primo film vero e proprio del signor Weide, regista per la televisione e autore di alcuni biopic che non ho visto (uno su Lenny Bruce, uno in produzione sul Kurt Vonnegut, sempre sia lodato), parla di un giornalista inglese di una rivista sinistroide di “low culture for eyebrows”** che si ritrova a scrivere a New York per Sharps, la rivista di glamour che… la… oh, insomma, Vanity Fair sotto falso nome.
La cosa che spiazza del film è la caratterizzazione del protagonista, interpretato da Simon Pegg (a cui dovrebbero erigere più di una statua): nonostante sia indiscutibilmente un nerd e un tipo alla mano capitato impromptu nel tempio dell’apparenza, il suo personaggio è oggettivamente sgradevole per la maggior parte del film. Dice cose evitabili, è spocchioso, borioso e per nulla insicuro di sé anche dopo aver infilato una gaffe dietro l’altra.
Non che sia materiale per aspirare ad un Oscar, ma nel regno dei luoghi comuni (non voglio infilare una tirata sugli europei smaliziati che credono nella realipolitik vs gli americani manichei che credono nella dicotomia good guy/bad guy e al valore della popularity, ma è un dato di fatto che la Grande Commedia Americana degli ultimi anni si regge su archetipi scavati nella roccia: l’Insicuro, lo Sfigato, la Stronzetta, la Dura-fuori-ma-forte-dentro, continuate voi) è abbastanza per conferire al twist un’apprezzabile vivacità. Kirsten Dunst e svariate citazioni dalla Dolce Vita completano la gradevolezza dell’insieme.
Quello che però mi ha veramente colpito è Adventureland, opera terza da regista del responsabile di Superbad, su cui a suo tempo mi espressi in maniera abbastanza netta (nella seconda parte di questo post, quella intitolata “blubblanchet vi spiega i giovani”, ma se preferite due parole: Superbad è un film sessuofobo incentrato su regazzini che – ovviamente – non pensano ad altro che al sesso, infarcito di gag del cazzo che le avessero fatte in un film italiano staremmo ancora qui a sollevare il fantasma dei Vanzina***).
Greg Mottola (così si chiama) di Adventureland è anche sceneggiatore; e si tratta di un film di stampo fortemente autobiografico ambientato nell’estate dell’87, in cui un ragazzo deve trovarsi un lavoro estivo e finisce in uno scalcinato parco giochi (l’Adventureland del titolo) a vivere la prima esperienza sessual/affettiva seria della sua vita.
Spaventati? Lo ero anch’io. O perlomeno pieno di pregiudizi, tutti negativi. Però Mottola fa, non saprei come dirlo altrimenti, un cazzo di miracolo. Intanto fa un film che, cito ancora il Maestro, non sembra un film sugli anni ’80, ma un film degli anni ’80, ricreando uno spirito del tempo con poche pennellate che non sembrano mai forzate (roba che nemmeno Donnie Darko). Poi fa un film pieno di musica da paura, che non è la musica hype degli ultimi 15 minuti ma Replacement, Big Star, Hüsker Dü, Lou Reed, etc, con una colonna sonora originale ad opera degli Yo La Tengo (perfetti come sempre), e per una volta davvero si ha la sensazione che ogni canzone sia funzionale alla trama e non, viceversa, che la trama sia un pretesto per ammucchiare ancora un’altra canzone. Un film in cui il personaggio che fuma la pipa dice "patetico, vero? Ma a me piace", o giù di lì, e non gli puoi dire niente, perché ha il sacrosanto diritto di fumarsi la sua pipa in santa pace.
Infine, soprattutto, fa un film che di quella costruzione per archetipi/stereotipi tipica della commedia americana (e dei dialoghi quirky immancabilmente tipici della commedia indie americana) si fa allegramente beffe. Un racconto di formazione in cui il protagonista è un nerd timido e impacciato ma non è un impedito (ed è capace, come l’altro grosso nerd del film, di una robusta autoironia****), in cui i dialoghi non sono troppo perfetti ma nemmeno troppo clumsy per essere veri, in cui si ride ma senza che qualcuno tenti di tirarci fuori la risata a forza dalla gola, in cui si può dire oooh e ci si può vergognare (questo solo se avete un massimo di diciotto anni e, preferibilmente, siete una donna*****) perché quello che succede è maledettamente sincero. Un film che non si nasconde dietro il paravento del protagonista “uguale a noi”: NO, il protagonista (i protagonisti) di Adventureland non fanno nulla per essere uguali a noi. Fanno errori che noi magari non abbiamo fatto e non ne fanno molti che avremmo fatto, dicono cose che noi (io) avremmo saputo dire meglio e cose che noi (io) a quell’età non avremmo saputo dire.
E soprattutto, vivono la fine della loro teenage con una spensieratezza misurata che il cinema ha sempre avuto problemi a descrivere, perso com’è tra i suoi loser e le sue cheerleader, impegnato ad ingigantire all’infinito problemi ombelicali di ragazzini impaccati di grana.
Adventureland è la storia di un ragazzo che deve fare un po’ di soldi e conosce una tipa che gli piace, e cerca di viverla bene. Non sono io, non siete voi, non è un’avventura memorabile, non è ricercatamente strano, è una piccola, bellissima storia senza pretese. Guardatelo se potete.
* aneddoto vero, e no, non dirò di chi si tratta – se non di persona, previo lauto compenso.
** è la definizione della vera rivista di Toby Young, dal cui memoir semi-autobiografico è tratto l’ancora meno autobiografico libro.
*** del resto Superbad è un film della scuderia di Apatow, uno che quando si dà alla commedia presunta garbata tira fuori mostri come Knocked Up – che si può definire soltanto reazionario solo a volergli molto bene.
**** ora che scrivo mi viene in mente che si potrebbe accusare il film di mettere le mani avanti. Ma anche fosse, è un fatto che se cade, cade in piedi.
***** io lo faccio comunque, ma io non sono un campione attendibile.
Chiudono i negozi di dischi, le case discografiche vanno in rovina, l’intero settore dell’industria musicale barcolla senza essere in grado -pare- di trovare la soluzione per convivere con le nuove tecnologie. E i giornali musicali? Chiudono anche loro.
Negli States hanno già cominciato da un po’, qui da noi sembra tutto immobile (ma forse è solo perchè siamo come al solito in ritardo, oppure perchè la crisi colpisce meno duro se un settore è già perennemente in crisi), ma il fenomeno è cominciato, e difficilmente si attenuerà.
Weiner non si limita a rilevarlo, ma cerca anche di spiegarlo: quali sono le ragioni per la fine dei giornali musicali? Queste le sue risposte:
1. There are fewer superstars, and the same musicians show up on every magazine cover.
2. Music mags have less to offer music lovers, and music lovers need them less than ever anyway.
3. Music magazines were an early version of social networking. But now there’s this thing called "social networking" … [#]
Il punto 1 a me non pare così fondamentale, ma forse chi bazzica giornali con tiratura e pubblico più ampio di quelli che leggo io (XL o Rolling Stone, per dire) può confermarne l’importanza.
Il punto 2 è sacrosanto: la rete contiene tutto quello che contengono i giornali, con in più contenuti multimediali e funzionalità interattive che la carta non potrà mai avere. I giornali li puoi leggere in treno, sotto l’ombrellone o in bagno e vederli impilati fa un bellissimo effetto, ma difficilmente la cosa basterà a salvarne la maggior parte dal (fisiologico?) rimpiazzo da parte dei siti web.
Il terzo punto è interessante, e si distanza un po’ dalle solite argomentazioni. Non sono solo Pitchfork e Drowned in sound (gratuiti, ben scritti, aggiornatissimi e pieni di contenuti multimediali) a uccidere i giornali, ma anche e soprattutto i blog e la loro rete, e poi Facebook, Twitter, Last.Fm, i forum, i fan site, le mailing list, tutti i posti in cui l’appassionato di musica incontra i suoi simili, si scambia dritte e opinioni (e da un po’ direttamente i dischi) e coltiva la sua identità musicale come una volta faceva anche e soprattutto grazie ai giornali musicali e ai negozi di dischi.
E la mitologica figura del critico musicale? Si sta trasferendo sul web, ma secondo Weiner è comunque destinato a ridimensionarsi non poco:
Meanwhile, with the proliferation of online music, sanctioned and otherwise, music fans don’t need critics to play middleman the way they once did: If a fan wants to decide whether he likes a new album, there are far easier ways than waiting for a critic to weigh in, from streaming tracks on MySpace and YouTube to downloading the whole thing on a torrent site or .rar blog. The value of the music reviewer has always been split between consumer service (should people plunk down cash for this CD?) and art criticism (what’s the CD about?), but of late the balance has shifted from the former toward the latter—answering the question of whether to buy an album isn’t much use when, for a lot of listeners, the music is effectively free. It’s a valid point that the professional critic still wields an aura of authority rare in the cacophonous world of online music, but between taste-making blogs and ever-smarter music-recommendation algorithms like Apple Genius and Pandora, the critic’s importance is being whittled down. [#]
E’ davvero l’inizio dela fine? I giornali musicali riusciranno a mantenere un loro ruolo o il loro settore (per definizione multimediale e interattivo) ne decreterà la morte? La nascita e l’evoluzione del web, per sua natura più adatto a gestirne i contenuti e in grado di dare un’esperienza più ricca al lettore, determinerà la fine dei giornali musicali così come li conosciamo?
E’ naturale che un partito cerchi consensi. Il suo scopo non è solo quello d’interpretare problemi e proporre soluzioni: il suo scopo è anche quello di attuarle, quelle soluzioni. E per attuarle bisogna essere eletti. E per essere eletti, insomma, ci siamo capiti.
E’ naturale, quindi, che un partito cerchi consensi.
Quello che è strano, invece, è perdersi alla ricerca del Consenso. Se hai la fissa del consenso, vuol dire che sei disperatamente lontano dai consensi.
Il fatto strano è che lo scopo principale del Partito democratico non dovrebbe essere quello di creare consenso, come tutti ripetono, bensì di creare dissenso.
Popper diceva più o meno che una teoria, per essere scientifica, deve essere falsificabile. Non serve dimostrare che sia vera. E’ scientifico solo ciò che ti consente, con un esperimento, di essere smentito.
Bisognerebbe applicare un test simile alle tesi politiche: se sostieni qualcosa e tutti sono d’accordo, probabilmente non stai dicendo un bel niente. Non è politica, è fuffa. Quando sostieni qualcosa e qualcuno là intorno comincia a obiettare, ad argomentare, a esprimere disaccordo, anche a incazzarsi, allora forse è il caso di sedersi e parlarne. Forse hai torto, ma se ne può discutere. Hai una tesi. Non è fuffa.
Il feticcio del Consenso è la premessa di ogni paralisi culturale. Bisogna avere il coraggio del dissenso: questo è il requisito primo di una forza politica sensata. Minimo. Bisogna smettere di inseguire il feticcio del consenso e cominciare a creare dissenso.
Vorrei vedere un Pd che crea dissenso su economia, giustizia, diritti civili, immigrazione, ambiente, scuola, istituzioni, fisco. Vorrei vedere un partito che discute di cose. Avere paura di dire cose strane, cose nuove, cose faziose, cose che difficilmente si sentono dire all’aperitivo o al bar significa avere paura di fare politica e di fare cultura.
Creare dissenso non vuol dire "parlare alla gente". Non vuol dire "parlare al paese" o "parlare dei problemi del paese". Queste espressioni stanchissime sono le etichette della palude culturale italiana. In un sistema parlamentare si parla alla gente, certo, si parla al paese e si parla dei problemi del paese. Ma si dicono cose su cui non tutti necessariamente devono essere d’accordo.
Parlate alla gente, ma non per rassicurarla, per incuriosirla. Per stimolarla. Per creare sopracciglia inarcate e battibecchi. Discussioni vivaci. Incazzature. Piatti che volano. Questo è il fottuto momento di dire cose che suscitano disaccordo.
La paralisi di questo paese è la paura. Il coraggio parte dal dissenso.
Difficile immaginare un personaggio musicale più inutile e insulso di Lissy Trullie. Aspirante rocker senza nulla da dire ma con un notevole stacco di coscia, la frangettata e un po’ androgina scenester newyorkese insegue disperatamente un hype che non merita, come era impossibile non notare al South By Southwest di Austin lo scorso Marzo (qui breve parere e 4 foto).
Nella corsa alla ricerca dell’attenzione inevitabile il momento della cover, che tanta fortuna porta a chi partecipa al gioco con stile e cervello ma che può svelare nel modo più patetico e impietoso la scarsità di idee e l’assenza di personalità. Lissy Trullie ci prova con Ready for the floor degli Hot Chip, mega hit da ballo che viene trasformata in sofferto e un po’ finto pezzo rock con video curatissimo quasi esclusivamente composto di pose. Vedete voi se ci siamo oppure no. Io, come avete capito, un’idea piuttosto chiara me la sono fatta..
-Disclaimer di rito-
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