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Ciao, oggi è il mio compleanno, e per festeggiare me ne vado a Londra per qualche giorno. Consigli, dritte e pacche sulla schiena sono i benvenuti.
Cosa rispondereste se vi chiedessi a bruciapelo quali sono i vostri versi di canzone dell'anno? A me, senza stare a pensarci troppo (potrei metterci MESI) sono venuti in mente questi.
[Ditemi anche i vostri, se vi va]
Drunk girls know that love is an astronaut:
it comes back but it’s never the same
(LCD Soundsystem, Drunk Girls)
MP3 LCD Soundsystem – Drunk girls
Io non ti cerco
Io non ti aspetto
Ma non ti dimentico
(Massimo Volume, Le nostre ore contate)
MP3 Massimo Volume – Le nostre ore contate
So keep your heart strong
and love long
and give kisses when you can
(Kisses, Kisses)
MP3 Kisses – Kisses
Primo; non avrai altro Dio
che le tenebre da attraversare
nella nota stonata di tromba
delle scale
(Perturbazione, Primo)
She makes my heart beat the same way
as at the start of Blue Monday
Always the last song that theyplay
at the indie disco
(The Divine Comedy, At the indie disco)
Piccole cose che fanno i veri nerd felici: il blog americano Mighty God King in questi giorni ha lanciato la Alignment Chart Week, ovvero la settimana in cui l'hobby è pubblicare la categorizzazione del mondo (nello specifico, dei personaggi delle serie tv) secondo gli allineamenti di Dungeons and Dragons (se non sapete di cosa sto parlando, non siete dei veri nerd). Qua sotto quelle di Mad Men e Big Bang Theory, ma sul sito ci sono anche quella di The Wire (che è un po' spoilerosa, per questo non ve la metto), 30 Rock, Arrested Development e alcune altre. Molto ben fatte.
(via)
[Clicca per ingrandire]
[Clicca per ingrandire]
Ognuno di noi ha i suoi opinion leaders preferiti, segue ansioso chi scrive l'editoriale sagace, disegna la vignetta fulminante, posta l'indignazione quotidiana, stila il riassuntone omnicomprensivo e talvolta persino la lettera lamentosa. Pazzo per Repubblica è il blog che va in questa direzione, un gruppo di feticisti del quotidiano fondato da Scalfari e diretto da Mauro, con cui hanno sviluppato il più simbiotico e irrinunciabile dei legami al grido di "critichiamo ciò che amiamo".
Un amore che pretende perfezione: negli ultimi giorni ad esempio si conteggia il numero delle volte che l'inviato da New York scrive WikiLeaks o Wikileaks a seconda dell'ispirazione del paragrafo, si nota il poco risalto della recente manifestazione del Pd a Roma, le classifiche del mese, c'è anche il dovuto compiacimento per una segnalazione andata a buon fine.
Qui sotto il consueto file per riascoltare l'intervista di ieri sera con Enrico Porro, ideatore di PPR.
Proprio nei giorni in cui la celeberrima Hipstamatic viene nominata (meritatamente, direi) la App of the year e mentre tutti parlano della (effettivamente fighissima, quando funziona) Viber, la vera Mobile app to have (per ora solo per iPhone; niente Android, Blackberry & co) è diventata indubbiamente Instagram.
Sorta di ibrido tra Twitter (da cui prende la timeline degli aggiornamenti e la struttura di social network con follower e following), Foursquare (a cui si connette, se lo si vuole, per la geolocalizzazione) e, per l'appunto, Hipstamatic (di cui clona l'applicazione di filtri di stile analogico alle foto), Instagram non inventa niente ma compone in forma perfetta una serie di funzionalità legate alla produzione e alla condivisione social di foto che riempe un vuoto e diventa più della somma delle sue parti. In un mondo in cui Twitter e affini spopolano, una piattaforma che consente di condividere con i propri amici una sorta di status fotografico (in modo incommensurabilmente più funzionale di Twitpic e affini), consentendo a chiunque, grazie ai filtri, di scattare foto un più interessanti di quelle normalmente prodotte con uno smartphone e spostando così il focus dalle mere velleità di testimonianza e vanto al tentativo di produrre foto in qualche modo belle e significative, è davvero l'uovo di Colombo.
E infatti pare che gli iscritti siano già intorno al milione, con una nutrita compagine italiana e un altissimo tasso di additività. A me per il momento piace e diverte molto (mi ci trovate ovviamente con il nome inkiostro; metterei il link al mio profilo, ma non mi risulta esista un'interfaccia web quindi se non avete un iPhone dovete limitarvi a immaginare le foto che ho caricato. Settario, lo so) e ho il sospetto che non me ne stancherò tanto presto.
Sono 4 anni che non pubblico sul blog la mia classifica dei dischi dell'anno (l'ultima volta era stata nel 2006 e, per la cronaca, nei tre anni successivi in cima probabilmente ci sarebbero stati Sound of SIlver degli LCD Soundsystem per il 2007, For Emma, forever ago di Bon Iver per il 2008 e Girls dei Girls per il 2009) e il bello di avere un blog è che puoi fare quello che ti pare per i motivi che ti pare e non devi spiegare niente a nessuno (io, per dire, semplicemente non ne avevo voglia). Quest'anno, invece, mi va, quindi procedo senza altri indugi a presentarvi la top ten dei miei dischi del 2010:
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LCD Soundsystem – This is Happening (DFA Records) |
L'unico problema della band di James Murphy è quello di aver già scritto varie canzoni a dir poco epocali (Losing my edge, tipo) e di aver pubblicato tre anni fa un disco a dir poco inarrivabile (Sound of silver), e con precedenti del genere non deludere almeno un po' è pressoché impossibile. Quando arrivi alla fine dell'anno e rimetti su il disco, però, la classe è sempre lì, e lasciarli fuori dalla top ten proprio non si può.
MP3 LCD Soundsystem – All I want
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9
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Spoon – Transference (Merge Records) |
Ed ecco un'altra band che non ha più niente da dimostrare: in anni di onorata carriera gli Spoon si sono affermati come uno dei punti di riferimento della scena indie, con una personalità solida e distintiva, una straordinaria capacità di sperimentare senza abbandonare i confini della struttura pop e una serie di pezzi che sono ormai diventati dei piccoli classici. Gli è però sempre mancato il disco perfetto, quello della consacrazione; e purtroppo Transference non fa eccezione. Ma come al solito ci va vicino, talmente vicino che la sensazione è quella che al podio manchi oramai pochissimo.
MP3 Spoon – Who makes your money
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Wavves – King of the beach (Fat Possum Records) |
In un anno in cui sembrava che per fare un disco fossero necessari almeno tre strati di distorsioni, quattro diversi tipi di riverbero, due filtri per la voce e una produzione stile cassetta lasciata chiusa nel cruscotto di una macchina parcheggiata al sole per un mese, quel cazzone di Nathan Williams ha spiazzato tutti facendo la strada al contrario: via tutto il lo-fi delle produzioni precedenti, in bella vista rimane una saldissima vena pop, declinata ora in chiave surf ora in chiave post-grunge, col rumore che crepita sotto, pronto a esplodere, e la voglia di fare casino come un ragazzino sulla spiaggia.
MP3 Wavves – King of the beach
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Mike Patton – Mondo Cane (Ipecac Recordings) |
Mike Patton ormai può fare quello che vuole, e se tra una suite rumorista dei Fantomas e un tour mondiale di reunion con i Faith no more ci infila un disco di cover di classici italiani degli anni d'oro della musica leggera del bel paese io, quanto meno, mi sento un po' fortunato. Tanto più se l'omaggio è così ben fatto, filologico senza essere agiografico, creativo senza essere a tutti i costi artistico, ben calibrato senza essere fastidiosamente studiato ma soprattutto cialtrone, gigione e paraculo senza essere una presa per il culo. Più italiano degli italiani, in qualche modo: a quando la cittadinanza onoraria?
MP3 Mike Patton – Il cielo in una stanza
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Suzanne Vega – Close-up, Vol. 1 – Love songs (Amanuensis Productions) |
Se non è da sempre, sicuramente è da molti anni che Suzanne Vega è fuori dai giri cool (provate a cercarla su Pitchfork: zero risultati). Una carriera lunga e lentissima (7 album in 25 anni), intermezzata da anni di silenzio e da una vita placida lontana da ogni tentazione di jet set (anche di quello indipendente). Nel 2010 è tornata in studio, non per incidere materiale nuovo ma per dare nuova veste e nuova vita a molte delle canzoni pubblicate negli anni, spesso non valorizzate da arrangiamenti inutilmente barocchi e produzioni pallide figlie dei loro tempi. Qua c'è la voce, la chitarra e il minimo indispensabile di strumenti per dare personalità al sound: il resto è la canzone, nuda, con melodie bellissime e testi inarrivabili. Un disco nuovo.
MP3 Suzanne Vega – Some journey
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Girls – Broken Dreams Club (True Panther Sounds) |
E' un EP, lo so, ma vale di più del 99% dei long playing che ho ascoltato in questo 2010. Le sei canzoni scritte e incise da Christopher Owens e Chet White sono piccoli gioielli di indie macchiato di suggestioni 60s, che fanno seguito in modo perfetto al bellissimo disco d'esordio dell'anno scorso e rivelano un'ispirazione che là fuori sono in pochissimi ad avere. Diventeranno grandi, secondo me. Ma forse lo sono già.
MP3 Girls – Thee oh so protective one
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Arcade Fire – The Suburbs (Merge Records) |
#culto #epica #messapagana #migliorlivebandelmondo #canzonidapaura
Vabbé, dai.
MP3 Arcade Fire – Ready to start MP3 Arcade Fire – We used to wait
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Massimo Volume – Cattive abitudini (La Tempesta Dischi) |
Il miglior disco della carriera dei Massimo Volume arriva dopo anni e anni di pausa. Il miglior disco italiano del 2010 arriva da una band che per tutti è una delle portabandiera del rock italico di due decenni fa. Vuol dire qualcosa? Lasciamo stare gli ovvi paragoni col vino che invecchiando migliora, o le riflessioni sulla situazione un po' allo sbando della scena indipendente nazionale (che in realtà non se la passa male, ma che in passato faceva molti più dischi che mi coinvolgevano) e inchiniamoci di fronte a quello che Mimì, Vittoria ed Egle sono riusciti a costruire. Non gli si trova un difetto, è un monolite compatto di musica ed emozioni, lo spoken-word non è un limite e quasi non te ne accorgi neanche. C'è il drumming (ENORME), le chitarre che grattugiano, le parole e la voce di Mimì. Confrontateli con le band a loro coeve e PIANGETE.
MP3 Massimo Volume – Le nostre ore contate
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Caribou – Swim (Merge Records) |
Si è giocato la prima posizione fino all'ultimo, perché qui dentro c'è tanta di quella roba da lasciarti secco. C'è un sacco di elettronica e un sacco di indie-rock, c'è musica che potrebbe essere da rave se non fosse quasi interamente suonata, e se non lo fosse da un personaggio che ti immagini più come professore di matematica che come DJ o musicista. Dan Snaith di matematica evidentemente ne sa ma l'applica alla musica, e su un palco suona tre strumenti alla volta, suda e ha un tiro che tantissime band si sognano. Un disco che non mi stanco mai di ascoltare (neanche nella sua versione remix), ed è una cosa che non mi succede quasi mai.
MP3 Caribou – Sun
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The National – High Violet (4AD Records) |
Se avete davvero ascoltato High Violet, probabilmente non c'è bisogno che io vi spieghi per quale motivo l'ho messo al numero uno. E' contemporaneamente Il miglior disco indie-rock dell'anno, e il miglior disco di crooning d'autore, ci sono l'amore, la vita, la morte, le chitarre, l'umore tetro e l'umorismo amaro, la maturità, l'alcool, il rock quello vero, una tristezza lacerante che può essere piena di speranza ma anche nera come la pece (anzi, viola). Non ne escono tanto spesso, di dischi così belli.
MP3 The National – Bloodbuzz Ohio MP3 The National – Anyone's ghost
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Le Au Revoir Simone noi le amiamo a priori, quasi più per motivi estetici (nel senso più ampio del termine: dal più basso commento da bar per l'avvenenza delle tre figliole al sublime piacere per la raffinata grazia preraffaelita -e un po' nerd- che emanano suonando le tastiere casio e cantando all'unisono) che per motivi strettamente musicali. E loro, a occhio, lo sanno: tanto che da un po' le loro attività uniscono alla musica sempre una forte componente altra. Per il video di Knight of wands, ad esempio, le tre fanciulle di Williamsburg hanno messo in piedi un video interattivo colorabile (qua in versione non interattiva) che è semplice ma funziona a meraviglia. E nel mio caso ha anche sortito l'effetto di farmi riprendere in mano il disco, che in certi pomeriggi invernali col cielo monocromo ci sta a meraviglia. Tanto che ti fa venire voglia di avere una tavolozza anche lì.
A volte ci capitano sott’occhio delle storie talmente assurde, talmente sconvolgenti, talmente "Cazzo che botta" che una persona appena più sveglia di Justin Van Der Volgen parafraserebbe Steve Albini sospirando: "At least pornography has a function".
Questi sono i momenti in cui deve scendere in campo quella specie di Charles Manson "buono", di Hulk Hogan a 17 anni che è Pop Topoi, il profeta del "tozzo di pane russoliano", il blogger che colleziona odiosi maglioncini color turchese con la scritta "It’s not over. It’s never over".
Sebbene la sua biografia rimanga ancora piuttosto confusa e lacunosa, sappiamo che ha sessant'anni e qualcosa, e l'entusiasmo ed il sorriso sfigato di un bambino quando, dopo una partita a tennis indoor in un loft sulla 23a, ti spiega – riuscendo a non essere mimimamente retorico – che "è severamente vietato scopare con Fabio De Luca e Violetta Bellocchio sul dancefloor di un'antica chiesa battista sconsacrata".
Pop Topoi è stato il primo di una lunga serie di dj quasi tutti – chissà perchè – rincoglioniti da youporn che hanno creato da zero la scena "witch disco" del 2007, uno dei tre o quattro grandi blogger oriundi italiani di tutti i tempi (era solito sfidare le sue groupies a praticargli il sesso orale sotto la tastiera mentre lui pubblica su Vitaminic un dissing compatto e a gamba tesa sulle Tamil Tigers).
Non scrive così spesso, si limita a fare qualche sporadica comparsata sul Sunday Times. O sul forum del Mucchio.
È l'uomo che nell'Islanda di inizio anni Settanta ha "involontariamente" inventato da zero il sexting (“scriversi porcate via SMS”) e la nozione stessa di "▲-side", esportata e scopiazzata da gruppi terroristici del nuovo orizzonte esoterico, coraggiosi Argonauti del Verbo Tondo che muore all'orizzonte di Flatland, che trasudano Riforma Biagi ed assolutismo mediatico di Mediaset.
Uno sconvolgente, bellissimo semidio che poco più di dieci anni prima, all’apice del successo e della forma fisica e mentale, si era fatto fotografare a cazzo rizzo insieme a Adrianone Pappalardo sulle pagine di GQ.
Quindi, nonostante l’hype pitchforkiano, i premi e la stampa impazzita, Pop Topoi è un personaggio costruito a tavolino e sembra funzionare solo quando comincia finalmente a cantare nei Type O Negative. Ma qualcosa non va. Smadonna contro il fonico, nel momento dell'acuto decide pure di cambiare parte del testo: "You’re a superstar, no matter who you are!/You don't act like an asshole when you go to the barber./So why act like an asshole when you're in a band?/No one gives a fuck what you think. Get over it". Lo dice così, cantando.
Benché si presenti come la portavoce di tutti i personaggi più strani e disadattati della vita, vi sono poche prove che lo sia davvero, a parte l’intervista sul “New York Times” in cui Pop Topoi se la prende con tutti e la spara grossa: “Sufjan Stevens è stato inventato dai Servizi Segreti americani per spiarci”.
Poi ci sono le storie sulla sua amicizia con il guru lisergico Andrea Girolami, sulla decisone (nel 1969) di abbandonare il mondo dei beni materiali, sulle giornate passate immobile nella posizione yoga del loto fino ad essere ricoverato in un ospedale di Manhattan (110 West all'incrocio con la 43a, destinato a diventare il luogo eletto di tutto il jet set omosessuale newyorkese), vittima di una grave forma di catatonia.
La prigionia e il trattamento sanitario hanno lasciato segni evidenti e irreparabili, l’uomo è rovinato: bolso, gonfio, i movimenti incerti, un tremito costante gli deforma i lineamenti già abbondantemente provati, e gli occhi saettanti tradiscono un terrore senza nome e una tristezza senza fine.
Nel frattempo non perde occasione di mostrarsi come "uno del popolo", un paesano. Uno che non invidia per niente la quantità di V.I.P. e star assortite che la pierre Camille Paglia riesce a convogliare dentro The Gallery, ma che anzi è orgogliosissimo di suonare in posti così piccoli per gente così "musicalmente educata".
Vederlo in quelle condizioni fa male al cuore, sappiamo che discende da una minoranza etnica sulla quale il governo di MTV ha perpertrato un genocidio lungo quasi trent’anni, la frangia faunrock della world music, la minimal-techno più ossianica o al synth-pop più esoterico.
Poi il rientro "tra i vivi": il trasferimento da NoHo (North Houston) all'area industriale vicino all'aeroporto di Brindisi, dove gli artisti occupano enormi loft al ritmo dell'ormai pienamente udibile musica universalis, uno smirk-hop venuto dall’inferno, taglia e incolla da vecchie vhs con sovraincisi dei primi goffi approcci sessuali di Kekko con la “ex-quella-che-ti-lascio-ma-scusa-non-è-colpa-tua-sono-io-che-ho-dei-problemi-con-le-liste-di-Everett-True”. Ora lui l'ha messa in copertina di un disco che è finito primo in classifica su Metal Shock, senza dirle niente e lei invece di incazzarsi è rimasta lusingata, ovviamente. Hanno ricominciato subito a scopare.
E qui scatta il colpo di teatro: tutti aspettano Pop Topoi dietro la consolle del Paradise Garage, ma lui arriva dal fondo della piazza vestito come la Statua della Libertà. Fende la folla, scortato da due esponenti della mafia portoricana, un poker di minchioni bling-bling (Gonjasufi, Ikke, John Peel, Flying Lotus), il manager di Jane Fonda e Toto Cutugno in "streaming totale".
Fisicamente è un piccolo miracolo, l'anello di congiunzione tra Max Collini e M.I.A.: si dimena e si agita come un sol uomo, costantemente fuori tempo, fermo immagine ∞ di un momento collettivo, potrebbe davvero assurgere al ruolo di paradigma di quel genere-non genere tipico di questi anni, col suo essere al centro))) di tutto.
Alcune foto dell'epoca mostrano in compagnia di una spumeggiante brunetta dall´aspetto raggiante, colorata e multietnica, forte di un look che trasuda PDL da tutti i capi, con una consapevolezza "artistica/concettuale" diverse dal famo caciara/stoniamoci.
Verrebbe da abbracciarlo fino a perdere la sensibilità degli arti, da circondarlo con una coperta come si farebbe con Gaetano Morbioli in fin di vita e orrendamente sfigurato raccolto dalla strada; ma niente e nessuno può riparare al male che gli è stato fatto.
L'ultima leggenda tramandata dice che oggi Pop Topoi suona raramente in giro perchè il suo dj-set ha un costo esorbitante. E non perchè lui pretenda chissà quale cachet: ma perchè – laddove i dj in genere portano con sé al massimo le proprie puntine – Pop Topoi gira il mondo con Justin Bieber per poterlo rallentare dal vivo.
Justin Bieber rallentato è un cosa FICHISSIMA, e con gli altri non funziona così bene. La mia teoria è che il pezzo di Bieber abbia dentro quei suoi 2 minuti così tanti suoni da contenere la visionarietà filmica alla Trucebaldazzi, che slabbra il potenziale horrorifico del glo-fi notturno in “a night of hypnagogic dementia”, l’(ab)uso di alcol o sostanze psicotrope da parte del Benty dei giorni migliori nel vano tentativo di mettere in fuga la strappona di turno, lo sdoganamento fighettino dell'Africa, la poetica personale densa di treni per Reggio Calabria e gatti neri anarcoinsurrezionalisti, Andy Warhol, Calvin Klein, il blues degli UNSANE, il glitch-pop di Grace Jones, Bianca Jagger, il sergente Scarone di Classe di Ferro accanto ad una Madonna ancora adolescente, Al Bano che si tinge i capelli con le mosche, certe struggenti ballatone cthulhop che uscivano su Acéphale nel lontano giugno 2009, i reality della "Signora Filippi" raccontati nel libro di Alessandro Baronciani, quei cantanti che azzeccano un successo e poi sono condannati a sparire, come i Camillas in versione più lo-fi e ancora più ossessiva, l'Isola dei Famosi che insomma è sempre un bel reality ma quando c'era lui di più, che lui è stato il primo e tutti quelli venuti dopo, tipo William Burroughs o David Mancuso o Vasco Brondi, non sono un cazzo, i colleghi che riempiono gli stadi come Bologna Violenta, Duchamp che faceva i baffi alla monnalisa, quegli aggeggi della la swatch per calcolare l'internet time, LA CINTURA ESPLOSIVA da indossare sopra i camici ospedalieri da coroner di colore verde, la mirrorball dello Studio 54, Emiliano Colasanti e i suoi bambini dai capelli rossi in botta.
Rallentare Justin Bieber è cambiare prepontentemente la percezione delle cose, quella della gente, delle azioni, mettere in luce e rendere arte la scienza del suono stronzo, incoraggiare lo sterminio delle balene. EnѺrme!
Secondo me è il tipo di cosa che si chiedono tutti, o almeno tutti quelli che, come me, ascoltano troppa musica nuova e troppo raramente si imbattono in qualcosa che gli piace davvero: quanto conta esattamente il momento in cui entri in contatto con una canzone, per fartene innamorare? Quanto dipende dalla tua stanchezza di quel giorno, dalla tua ricettività, dall'umore, dal tempo che fa fuori? Quanti pezzi splendidi mi sono perso perchè li ho ascoltati distratto, o nella stagione sbagliata o perché mi andava un pezzo tirato e mi è capitata una ballata? E quante volte mancava solo un ascolto per rimanere colpiti, e invece l'emmepitrè è stato messo in parte in favore dell'ultimo leak?
Non ne ho idea. So solo che oggi mi sono imbattuto di nuovo in Rubber degli Yuck, che avevo già sentito varie volte negli ultimi mesi ma aveva lasciato appena una buona impressione con retrogusto di hype. Degli Yuck si fa un gran parlare da tempo (anche se il loro disco, firmato da Fat Possum, non uscirà prima di un 3 mesi), ma di questi tempi i nomi nuovi di cui si fa un gran parlare si collocano quasi sempre appena sopra la sufficienza quindi non avevo dato loro troppa attenzione. Poi oggi, l'illuminazione: Rubber è una cosa quasi perfetta, una montagna di gomma morbida ma ruvida che sta tra Sometimes dei My blood Valentine, Wake up degli Arcade Fire e qualche cavalcata dei Mogwai da Young Team (che infatti l'anno anche remixata, peraltro togliendogli del tutto la distorsione: sono invidiosi, mi sa). Avvolgetevici sotto le coperte, o guardate al ralenty fuori dalla finestra pensando al sorriso di una ragazza. L'ascolto giusto può anche farvi innamorare?
[Qua c'è il video, interamente a tema di toeletta canina (ultimamente va molto), ma è bruttino e toglierebbe quasi tutta la poesia al pezzo, quindi non lo embeddo]
MP3 Yuck – Rubber
Ciao, mi chiamo Michael Cera, recito nei film pucci e suono il basso in un gruppo nuovo insieme a Joe Plummer dei Modest Mouse, Nick Thorburn degli Islands e Honus Honus dei Man Man. Anche se sto sulle palle un po' a tutti (ma ho recitato nella serie tv di culto Arrested devolpment! Certa gente non ha davvero rispetto), e se, dopo tutta la monnezza che ho fatto, eravate prontissimi a odiare il mio ultimo film, Scott Pilgrim VS The World in realtà un po' vi è piaciuto (però non lo ammetterete mai). Come non ammetterete che questi Mister Heavenly sembrano abbastanza promettenti; non avranno fatto un brutto affare a tirare in mezzo uno sfigato come me?
[se vi interessa, qua c'è tutto il concerto di qualche giorno fa a Portland in MP3; qua tutti i video]
Non so chi di voi guardi abitualmente la tele, e non dico il televisore, dove sparate le cose che vi scaricate sugli ardìsc voi giovinastri, intendo proprio i canali della tele, la Rai, la Mediaset, la Sette. Se avete acceso uno di questi canali negli ultimi giorni avrete probabilmente visto questo spot del caffè Lavazza.
Niente di nuovo, anzi, forse è meglio Julia Roberts zitta che l'inguardabile faccione della zia di Vincent Vega alle prese con Cocahunziker. Ma se i più svegli di voi osserveranno che il copy di questa roba è un po' polveroso e triste, alcuni dei più noti blog americani di pop culture non trovano per nulla normale che Julia Roberts prenda, pare, e dico pare, un milione e mezzo di dollaroni per una comparsata in cui non dice nemmeno, che ne so, "lavazza", "mamma mia", o "pizza spagheti bellusconi".
Ad aprire le danze è Jessica Coen su Jezebel, il cui breve post si intitola "The Most Lucrative 46 Seconds Of Julia Roberts' Career":
She who eats, prays and loves has also been paid $1.5 million to appear in an Italian commercial for Lavazza coffee…in which she doesn't say one word. Though she does make three or four facial expressions, including "contemplative" and "joyous."
A seguire, Dan Hopper di Best Week Ever commenta così:
Here’s Julia Roberts appearing in an Italian commercial for Lavazza coffeemakers, where she was reportedly paid $1.5 million to watch Italian Keith Olbermann and an artist-looking dude banter then drink coffee and smile. This may sound high at first, in a world where 7,000 children will die instantly today solely because Lavazza didn’t give them .01% of that money for clean drinking water, but if you check the celeb Blue Book, that’s pretty much the going rate for getting Julia Roberts to stand, drink coffee, and smile (each action is 500k).
Ouch.
Gabe di Videogum fa leva su un argomento interessante, ovvero che Julia Roberts ormai ce la caghiamo solo noi:
Also, really, Italy? Julia Roberts? What, was Kathy Ireland unavailable? (Insert other examples of famously beautiful women who still look great not only for their age but for any age but also whom we can all agree have lost a certain cultural relevance when it comes to representing physical ideals.) At the very least, if you’re going to give Julia Roberts 1.5 million dollars, at least get some snappy sass from her. SNAPPY SASS!
Infine, anche un blog cinematografico come Cinematical ha qualcosa da dire sull'argomento, ipotizzando che le pubblicità europee e asiatiche siano ormai l'ultimo baluardo di uno star system morente:
If Julia, whose star power isn't what it once was, can command that much pay for a quick, silent job, one has to wonder if commercials will become a more prevalent source of celebrity income. As cinematic paychecks stay moderate, it's hard to refuse the opportunity to spend a day or two standing around, and get paid over a million bucks for the easy, breezy work.
In giornate come questa, cupe, fredde e un po' angosciose, in cui non rete non succede nulla di interessante e i dischi nuovi sembrano tutti un po' più brutti e meno ispirati di come dovrebbero essere, il post Big Jim: un pupazzo parecchio brutto, mille avventure, qualche figura di merda sul blog del Dr. Manhattan è il tipo di cosa che ti svolta la giornata:
Chi era Big Jim? Chi era Jim il grande (il grosso?), questo pupazzino di cui i giovani non sanno e i meno giovani invece sì? Questo tizio di plastica e gomma che tutti credevano fosse il vero uomo della Barbie, nonostante il fidanzato di facciata Ken? Che ancora oggi viene utilizzato nelle terre del Sud come metro di paragone per soggetti bellocci ma sgraziati ("mi pari 'nu bigjimm")? Che gli Elii hanno elevato a simbolo di tutti i servi della gleba a testa alta ("come dei simbolici biggimme, schiacci il tasto ed esce lo spaccimme")? Beh, era semplicemente Big Jim, era un pupazzo orribile della Mattel con dei veicoli molto fighi, e aveva alle spalle una lunga storie di sofferenze e parentele imbarazzanti. […]
La storia di Big Jim parte dagli umili bassifondi del mercato dei pupazzini sportivi. Va, e si schianta quasi subito contro un muro. Per poi tentare tutta una serie di ripartenze praticamente alla cieca, con Mattel pronta a lanciarsi ora nel genere western, ora su atmosfere e personaggi salgariani, per poi infine trovare per la sua linea di
bambolottiaction figure una ragion d'essere nella linea sullo spionaggio. E chiudere più o meno in bellezza con quei cloni dei GI Joe della collana fantascienza. Ma procediamo con ordine e non facciamo i soliti precipitevolissimi.
LINEA BASIC (1972-1975)E' il 1972. Hasbro sta accumulando da oltre otto anni vagonate di paperdollari grazie alla sua prima linea di GI Joe, pupazzoni alti trenta centimetri con i vestitini da soldati. Mattel, con un tempismo da bradipo agonizzante, decide di provare a farle concorrenza: dopo il prototipo "Mark the Strong" viene lanciata così la prima linea Big Jim.
Il Big Jim originale, il primo della lunga stirpe di eroi con la riga di lato e la faccia da pirla, era questo:
[Continua su L'antro atomico del Dr. Manhattan]
[il titolo del post lo capiamo in tre, mi sa]
Appartiene alla lobby dei blogger romani, da anni e anni tiene uno dei blog più divertenti della rete e negli ultimi tempi è finito su giornali, radio e ora ha pubblicato persino un libro. Si chiama Achille e nei giorni scorsi ha presentato la sua guida semiseria Roma senza vie di mezzo (appena pubblicata da Pendragon) con queste parole:
Qualche tempo fa mi arrivò una mail con la seguente proposta: una casa editrice bolognese stava preparando alcuni volumi dedicati alle principali città italiane. Il format prevedeva una guida divisa a metà, da una parte le cose consigliate, dall’altra quelle da evitare. Mi andava, diceva la proposta, di scrivere la guida dedicata a Roma?
La proposta era allo stesso tempo attizzante e insidiosa per uno come me, un calabrese arrivato 15 anni fa nella capitale dicendo “sono solo di passaggio” che ha finito per mettere radici. Insidiosa perché Roma è una città complessa e infinita, che nemmeno i romani conoscono bene, e perché a me vien voglia di scrivere soprattutto delle cose che mi piacciono, ma il format era quello: per ogni posto che ami ne devi trovare uno che eviti, per ogni ristorante dove andare ce ne vuole uno che per carità, per ogni locale dove porteresti i tuoi amici devi tirarne fuori uno dove manderesti il tuo peggior nemico.
Da queste condizioni è venuta fuori una guida discutibile, personale, si spera piacevole da leggere, non dogmatica, cazzona già nelle intenzioni. Una serie di riflessioni su posti, piazze, pizzerie, pub, discoteche, negozi, usi, costumi e personaggi, in cui ogni cosa sta o di qua o di là. Con l’obiettivo altissimo di cogliere lo spirito della Roma di oggi e quello, più concreto, di scrivere una guida senza usare mai la parola “pittoresco”.
Il risultato si chiama Roma senza via di mezzo, e dice che esce oggi.
Stasera a Impronte digitali faremo quattro chiacchiere con Achille, per sapere qualcosa in più del suo libro, chiedergli dove si mangia il migliore abbacchio e se essere un blogger di successo aiuta a conquistare il gentil sesso. Dalle 19 alle 20 sui 103.1 MHz in FM a Bologna e provincia, oppure in streaming dal sito di Radio CIttà Fujiko (e domani, in padcast).
[Sempre lucidissimo, Saturday Morning Breakfast Cereal]
Mentre tutto il mondo giustamente parla delle più recenti rivelazioni divulgate da Wikileaks, il piccolo evento della giornata nel mondo indie è che in rete ha fatto la sua comparsa il nuovo singolo di Iron & wine Walking far from home, ballatone da manuale che anticipa il nuovo disco del barbuto Sam Beam Kiss Each Other Clean, che esce a Gennaio per una major e ha una copertina molto bella.
[e sì, lo so che tecnicamente non è un leak, ma non ho resistito al calembour]
MP3 Iron & wine – Walking far from home