Sei arrivato, con i tuoi tredici anni ormai buttati alle spalle. Varchi la porta univoca dell’aeroporto, ci dedichi un sorriso, a noi famiglia che tutta unita siamo venuti lì a riprenderti, fratellini compresi che non stanno fermi un attimo e appena ti vedono ti si buttano contro. Mi abbracci. Sono tua madre. D’altra parte oggi, tredici anni fa, se non era per me. Lo sai. Mi abbracci, mi dici Ciao, mi dici Mamma, ti chiama il nonno, gli dici Liberté égalité presumo che lui dall’altro capo ti dica il seguito, saluti il nonno, gli dici mangiamo la pizza insieme stasera nonno, butti il bagaglio pieno di gadget comperati al museo dei Beatles in macchina, sali con un’ascella che puzza e una no, apri il finestrino e dici: in Galles non usano l’aria condizionata, fai un sacco di solletico a tuo fratello, tuo fratello non capisce più niente perché ti vede dopo quindici giorni, ed è felice, naturalmente felice, come noi, siamo tutti felici di rivederti. E oggi finiscono i tuoi tredici anni.
Nell’ordine:
– entri in casa chiedendo con urgenza una pasta al pomodoro
– siccome sappiamo tutti che la pasta al pomodoro non è propriamente il cibo tradizionale gallese, nessuno di noi ti chiede spiegazioni
– divori la pasta al pomodoro come fosse il primo cibo che stai mangiando dopo l’apocalisse e tu fossi l’unico sopravvissuto
– racconti che hai fatto amicizia con Ragazzo Ciccione Turco (che non è Ragazzo Ciccione Italiano che dorme con te), il quale ti ha insegnato come si dice “puttaniere” in turco, sia mai che ti servisse quando andrai in vacanza studio a Istanbul
– dici che hai bisogno di dormire. Continui a ripetere in loop gli orari del ritorno, scalo ad Amsterdam, il jet lag che diosolosa dove sia tornato in linea con l’Italia, ma insomma sei pur sempre in giro dall’una di notte e non sei abituato
– vi rendete conto che vado verso i quattordici?, e con questo ti alzi da tavola, dalla pasta al pomodoro, vai a lavarti i denti e poi collassi meravigliosamente nel letto
– dormirai fino alle cinque del pomeriggio. Però ti sei lavato i denti.
Io sono la madre di questo tredicenne finito oggi. Io ispeziono la sua valigia, facendo piano piano sennò mi si sveglia, ma lui dorme, c’ha il sonno dei secoli da recuperare. Dorme anche il fratellino, di fianco a lui, per empatia, come solo i fratelli sanno.
Trovo nell’ordine:
– un docciaschiuma praticamente intonso
– ma lo shampoo, ehiii, lo shampo pantene è – incredibile – finito, il tubetto del tutto strizzato, quasi a farlo uscire a forza
– io sono la madre e penso che a)mio figlio è scemo e non sa leggere le etichette delle confezioni, per cui non distingue uno shampoo da un docciaschiuma e per quindici cazzo di giorni si è lavato le ascelle con lo shampoo; b) mio figlio è un paraculo e mi ha paraculato fino a ora dicendomi che sì, si era lavato ma col cazzo
– un paio di occhialini di John Lennon comperati al museo di Beatles per l’Uomo Maggiorenne Di Casa.
– un t shirt dei Beatles autoregalatasi, che è meravigliosa, giuro, meravigliosa, e quando si sveglierà mi dirà: no, mamma, le t shirt con le patacche quadratone di Abbey Road le ho lasciate agli altri; io ho preso questa. Non aveva patacche, solo la mela verde, le quattro facce stilizzate, e basta, niente patacche, e io saprò che per tredici anni ho fatto il mio sporco mestiere di madre, e l’ho fatto da dio
– cannucce e bicchieri con cannucce annesse di ogni tipo. E mi sto ancora chiedendo il perché.
Poi si sveglia. Prima di soffiare tredici candeline su una torta che ha chiesto lui, con tutta la famiglia allargata intorno, perché l’ha chiesto lui, la famiglia la torta il compleanno i fratellini le mogli acquisite gli Uomini Maggiorenni che sono i Secondi Padri, vi voglio tutti a festeggiare con me, Vito Corleone gli fa un pippone, giuro, insomma prima di soffiare l’happy birthday dei suoi tredici faticosissimi anni fa in tempo a raccontarmi di Ale.
Ale vive al Pilastro, ha i bermuda col teschio da tamarro ma tutte le domeniche va in chiesa. Mio figlio ha la simpatica idea di dire ad Ale, in una notte gallese senza orari, che è ateo e non battezzato. “Sono ateo e sbattezzato” dice proprio al povero Ale. A mo’ di vanto.
Ora, ai tempi miei, chi non era cresimato era una bestiolina, come diceva mia nonna. Figuriamoci il battesimo.
Respiro forte e provo a spiegargli che lui non è effettivamente ateo. Perché deve ancora studiare e crescere e capire che diamine sarà.
Io. Sono. Ateo. Quando muoio muoio. E basta.
“…”
“E non sono battezzato perché tu stessa, Madre, mi hai detto che mi avresti lasciato la possibilità di farlo da grande. Se mai avessi voluto farlo, intendo”
“…”
“Tipo anche adesso. Adesso, se volessi, potrei andare e dire voglio battezzarmi. Così, capito.”
Insomma, Ale che vive al Pilastro ed è un tamarro, sentendo che lui è ateo e non battezzato gli risponde: Ma allora sei un comunista.
Lui dice: Sì, e allora.
Poi ci pensa un poco, e gli dice: scusami eh, Ale, ma se uno è ateo non vuol dire che per forza è comunista. E comunque sì, io sono comunista perché mio nonno lo è, e mia nonna lo è, e mia madre lo vorrebbe essere. Però se uno ti viene a dire che è ateo non per forza deve essere comunista. Che cazzo c’entra, non son mica sinonimi.
Dice così.
Io, Madre, lo sgrido: non devi usare un linguaggio volgare o parolacce tipo ‘cazzo’ nelle tue argomentazioni oppositive.
“Ma mi ha fatto girare i coglioni, che cazzo di discorso è, uno può essere ateo e non comunista e un comunista non dev’essere per forza ateo”
“…”
“Cazzo, mamma, ti sembra un discorso da fare. Poi mi è pure sceso nella top ten delle amicizie, Ale, dico, perché una notte mi ha tenuto sveglio a dirmi che dovrebbero mettere le barriere nel mare alte così per non fare arrivare gli africani, e diceva anche che bisognerebbe ammazzare tutti quelli non italiani, insomma lui voleva un mondo fatto solo da italiani”
“…”
“Tu pensa che razzista”
“Senti, mamma, ma tu lo sai come si dice puttaniere in turco?”
“No, non lo so”
“E scoreggia in inglese?”
“Neanche. Tesoro.”
“Che ore sono?
“Le sei e mezza”
“Era già iniziato il cesareo?”
“Era già iniziato. E pure finito. Eri già uscito. Te ne stavi lì, con occhi da terrorista, neri come la fame, nella culletta dell’ospedale a guardare il mondo intorno a te”
“E lo zio Mario ti portò dei toast, vero?”
“Lo zio Mario mi portò dei toast, sì”
“Sto andando verso i quattrodici. Te ne rendi conto?”
“Me ne rendo conto, tesoro. Sì.”
“L’anno prossimo festeggiamo con dei toast. Ce li porta lo zio Mario.”
“Va bene, tesoro.”
“E forse per quell’epoca mi sarò pure battezzato.”
“Mamma, ma li mangiasti poi i toast dello zio Mario, quella volta?”