Indie-cazioni per un futuro incerto
[Post scritto sotto l’effetto di abbondanti dosi di paracetamolo, echinacea e ambroxol cloridrato. Perdonate le idiosincrasie e la lunghezza, ma finchè ho la scusa dell’influenza sono coperto. Questo post non è una recensione del concerto dei Radio Dept; è un delirio più per me che per voi -scritto in seconda persona, tra l’altro: davvero insopportabile- quindi potete anche fare a meno di leggerlo e tornare domani]
Sabato sera c’era un sacco di gente. Tu, in realtà, te lo sentivi, ma siccome il tuo istinto ha smesso di funzionare parecchi anni fa (ammesso che abbia mai funzionato), non ti fidavi, e tendevi come sempre ad essere pessimista e ad aspettarti il meno possibile. Ma questo è un altro discorso, che non hai intenzione di fare ora.
Sabato sera c’era un sacco di gente che conoscevi. Il che, in realtà, era abbastanza ovvio: alcuni sarebbero venuti comunque, altri sono venuti sotto la minaccia che gli avresti tolto il saluto -far valere i rapporti amicali, una volta ogni tanto, è cosa buona e giusta-, alcuni erano blogger e dovevano dimostrarne il potere mediatico di smuovere le folle (ecc ecc), altri non sai perchè c’erano, ma c’erano. C’era anche della gente che di solito non viene al Covo; ad alcuni il concerto non è piaciuto (e questo, in effetti, non è così sorprendente), ad altri invece sì (e questo è bellissimo), anche se gli spocchiosi come te pensavano non avessero gli strumenti culturali (leggi: adeguata preparazione musicale) per apprezzarlo. Ulteriore prova, se ce ne fosse stato bisogno, che la musica pop, nel senso più ampio del termine, non è un’arte come le altre, e fa della naïveté uno dei suoi pilastri.
Sabato sera, 3 persone diverse, in 3 momenti diversi, ti hanno chiesto cosa significasse la parola ‘indie’. Tu hai nicchiato, hai detto di non avere voce, che era un argomento troppo complesso per parlarne con la febbre, e che, in realtà, nessuno lo sa di preciso ed ognuno ha un’idea molto sua della cosa. Ora, non che tu adesso stia molto meglio, ma un’idea te la sei fatta. Avresti dovuto rispondergli: «prendi me questa sera, io sono indie».
La sfiga è indie. La sfiga di avere 38 di febbre (ora glielo puoi svelare: ce l’avevi eccome, la febbre) la sera del concerto che hai passato almeno un mese ad organizzare, ad esempio. La sfiga di essere in condizioni così pessime da non aver voglia neanche di andare a parlare coi membri del gruppo che hai fatto tanto per portare qui, o di andare a fare le inevitabili public relations che -fortunatamente- Enzo, laLaura e Lucio sanno fare assai meglio di te. La sfiga di non poter portare a termine il lavoro faticoso proprio quando comincia a dare i frutti ed affiorano gli aspetti piacevoli (in più di un senso, e più di un lavoro). La sfiga di essere talmente poco lucido che il tuo cervello ci metteva almeno 3 minuti ad elaborare una risposta decente ai (troppi) stimoli esterni che lo bombardavano, e almeno altrettanto le tue corde vocali ad esprimerlo in forma intellegibile a forme di vita non in grado di percepire gli ultrasuoni.
Anche il successo, però, talvolta è indie. Quando un manipolo di geek riescono dal nulla a portare 250 persone a vedere dal vivo un gruppo il cui disco in Italia è impossibile da trovare (benedetto sia il peer to peer), e anche nel resto del mondo non è che ci siano proprio i cartonati ad ogni angolo dei Virgin Mega-store, ad esempio. Il successo che imbarazza una band che si guarda le scarpe e non sa come affrontare l’entusiasmo del tutto inatteso di un locale strapieno di gente che applaude e urla, e solo per loro. Ma anche il successo dell’organizzazione, quando ogni applauso all’annuncio della prossima canzone e ogni ovazione alla fine lo vivi immodestamente come un applauso a te e ai tuoi soci, a quello che siete riusciti a fare (organizzare, informare, esserci), e pensi che per una volta, davvero, l’entusiasmo che ti circonda è anche merito delle mille mail scritte, delle tante telefonate, dei pomeriggi ad attaccare le locandine e le serate a distribuire i volantini e dei banner e del comunicato stampa e dei passaggi in radio, e degli spot e degli articoli e di tutti gli amici che vi hanno aiutato a spargere la voce, con una generosità di cui hai quasi paura di aver bruciato ogni credito per cento anni a venire. Il successo di esserci, ma solo a metà. Come un blog che fa il suo record di accessi giornalieri in un giorno in cui non c’è scritto niente di nuovo, o di un gruppo che si porta solo 40 copie dei suoi dischi da vendere rimanendo sconcertato per la velocità con cui vanno esaurite e per la quantità di persone che rimangono senza.
Sabato sera, per te, è stato un po’ un giorno zero. Più nel senso di qualcosa che finisce, piuttosto che di qualcosa che inizia. Le cose che finiscono sono un sacco indie. La pioggia che minaccia di cadere a minuti è indie. I tuoi prossimi mesi di disoccupazione da 110 sono davvero molto indie. Il fatto che i Radio Dept non suonino la tua canzone preferita è indie a manetta, come lo è il fatto che debbano essere convinti dalle insistenze degli organizzatori a suonare il loro migliore singolo, e che per farlo abbiano bisogno del tuo capotasto (che tu speri ora sia in Svezia con loro, e che abbia anche lui parte nelle prossime canzoni che scriveranno). Gliel’avete permesso, e le cose strane sono successe. Come previsto, il danno è stato fatto. E tu, che avresti dovuto e voluto essere investito in pieno, per vedere cosa ne veniva fuori, stavi trascinando (più che spingendo) il tuo peso, ed eri troppo annebbiato dal paracetamolo e dal nimesulide per tenere la posizione. Hai visto le cose solo di lato -ed infatti vedere le cose di lato è un sacco indie- ed ora le interpreti come indicazioni per un futuro quanto mai incerto. Un’incertezza che, sei sicuro, ai Radio Dept non dispiacerebbe. E ora, dopo tutto questo, neache a te.