Io preferivo la chitarra di Marr
E’ in vendita il basso degli Smiths. Facciamo una colletta?
(poi lo tengo io però)
Io preferivo la chitarra di Marr
E’ in vendita il basso degli Smiths. Facciamo una colletta?
(poi lo tengo io però)
This school rocks
Da Slate a Salon, da Pop Matters a Usa Today, in America ne parlano bene veramente tutti: pare che School of Rock sia un gran film. Del resto i nomi coinvolti parlano da sè: Richard Linklater (La vita è un sogno, Prima dell’alba, Waking Life) è uno dei più brillanti registi indipendenti americani, Jack Black è uno che riuscirebbe a far ridere anche durante un funerale e Jim O’Rourke (Gastr del Sol e Sonic Youth, tra gli altri) è una garanzia in fatto di musiche. A quanto raccontano, il film parte come una commedia più o meno demenziale (un aspirante chitarrista rock diventa per caso maestro in una esclusiva scuola elementare privata), ma cresce grazie a ottime intuizioni e regala scene memorabili. Non ho idea del tempo che ci metterà ad arrivare da noi (mesi? anni?), ma così tanti pareri positivi sono sospetti. O è una capolavoro o una cazzata, insomma.. Boh, vedremo.
[Update: ah ecco, Stylus Magazine lo stronca in maniera molto categorica: «School of Rock is one of the more nauseating experiences I’ve had at the movies in recent memory, and without a doubt one of the unfunniest comedies I’ve ever had the displeasure of sitting through». Ti pareva.]
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Una metà dei gruppi li ho già visti, per altri non so se farei gli 80 Km che mi separano dal Calamita, ma sicuramente non mi perderò per nulla al mondo i Devics, i cui dischi sono una delle cose più incantevoli in cui io mi sia imbattuto negli ultimi mesi.
Guerra termonucleare globale
Stamattina, dal nulla, mi è venuto in mente War Games.
(immaginate quanto ero concentrato)
E’ una mia impressione o sono anni che non lo trasmettono più alla tv? Sono secoli che non lo rivedo, ed è un peccato perchè era un film davvero avanti. La guerra termonucleare globale, il modem che si infilava nella cornetta del telefono, la password della scuola che cambia ogni giorno, gli albori del mondo degli hacker..Il mondo stava cambiando e pochi film hanno rappresentato quel tipo di mutamento, meno importante di mille altri -al momento- ma così decisivo adesso. Ma è inutile che faccio discorsi pretenziosi, è un film che amo semplicemente perchè sveglia il nerd (anzi, il geek) che c’è in me. Ora vado a tirare fuori il Commodore 64 e faccio una partita a Montezuma.
[ok, va bene, oggi è una giornata strana; e allora?]
Bottondoro
Sono l’unico a trovare il bottoncino di Splinder davvero brutto? Oltre che settario e poco utile, ovviamente.
[Ripeto: non mi sono svegliato col piede storto, ok?]
L’angolo Potemkin
Posso dirlo? Posso dire che sti Decemberists, che tutti incensano (Pitchfork e Stylus Magazine, ad esempio) non sono poi questo granchè? Che gli arrangiamenti non sono male, ma che la voce molkiana del cantante, senza la sana dose di chitarre distorte dei Placebo in cui mimetizzarsi, rovina irrimediabilmente il loro pop da camera, e stona quanto Johnny Rotten che canta la ninna nanna di Brahms? Che ci trovano tutti di così straordinario?
E posso dire che l’ultimo degli Elbow è noiosissimo, e che i loro gospel fotonici sono un esercizio di stile tanto autocompiaciuto quanto soporifero? Ma che fine ha fatto l’ispirazione di Asleep in the back?
E posso dire che Damien Rice mi fa rabbia perchè fa ballatone che meno originali non si può eppure mi piace? Che quando ascolto Volcano e The blower’s daughter mi sciolgo come uno scolaretto malinconico, e questo è assai disdicevole? E che, insomma, Damien, sei tanto bravo, ma davvero non potevi metterci un po’ meno melassa nel tuo disco d’esordio, che poi ci prendono in giro e ci danno delle femminucce? E dovevi proprio chiudere il disco con una versione a cappella di Silent Night? Ma non hai proprio il senso della misura? E ora che hai vinto pure lo Shortlist Prize, chi ti ferma più?
[E non dite mi sono alzato col piede storto stamattina. Non ci provate.]
Temo servirà un ritocchino
Bizzarra iniziativa della Mescal. La casa discografica piemontese, per la quale incidono alcuni tra i più noti gruppi indipendenti italiani (Subsonica, Afterhours, Cristina Donà, Bluvertigo e Modena City Ramblers, per fare dei nomi), ha deciso di pubblicare una compilation dei suoi artisti interamente ‘curata’ dal pubblico. Grazie a un sito web è possibile votare la propria tracklist ideale, senza alcun vincolo nella scelta delle canzoni se non quello di pescare solo dal catalogo Mescal, e in fasi successive sarà sempre il pubblico a scegliere titolo, copertina, strategie pubblicitarie (?) e quant’altro.
O alla Mescal bareranno, oppure ho l’impressione che si troveranno con un disco con 10 pezzi dei Subsonica, 5 degli Afterhours e poco altro. Non sarà difficile accorgersene: se nella scaletta finale ci saranno pezzi dei Soerba, dei Caravan de Ville o dei Fiamma Fumana, avremo la certezza che la votazione popolare ha subito qualche ritocchino.
[e forse non li si potrebbe neanche biasimare..]
Io ci avrei messo anche i cellulari
Le 10 tecnologie che meritano di morire secondo Bruce Sterling. Ci sono le armi atomiche -si badi bene, solo le armi-, le centrali a carbone, le mine anti-uomo, la macchina della verità e, non ultimi, i DVD. Scommettiamo su quale morirà per prima?
Un pugno nello stomaco che fa molto meno male
Stamattina ho ricevuto un sms: «Finalmente ho visto Elephant di Gus Van Sant. Preparati: è un pugno nello stomaco. Con tutti i pro e i contro». Dopo aver pensato a quali possano essere i pro di un pugno nello stomaco (in senso assoluto, dico), non ho resistito, e sono andato a vederlo. Sono uscito dal cinema non troppo convinto, in particolare per i giudizi, quasi unanimi, che lo additano come capolavoro (Palma d’oro e Miglior Regia a Cannes). Poi mi sono ricreduto, ma solo in parte.
Ora, non sono un critico cinamtografico -anzi, sono piuttosto ignorante in materia- ma per me un film deve innanzi tutto coinvolgere, nel bene e nel male. Ed Elephant non lo fa. Ma, si badi, non certo per incapacità del regista; è che *non vuole* farlo. Il mio apprezzamento è infatti tutto intellettuale e posteriore, frutto dello scambio di opinioni finale con Ganz, Flavia e Paolo, che mi hanno spinto ad apprezzarne la genialità formale, i mille richiami e le tante metafore che si rincorrono, come i personaggi, nel film. I lunghi piani sequenza, i personaggi che non fanno altro che camminare, il punto di vista della camera da presa sterile e insensibile come la soggettiva di un videogioco, la composizione dei piani temporali e il gioco con le aspettitve dello spettatore, che vengono sistematicamente disilluse. Il tutto evitando di cadere nei mille clichè di genere quasi inevitabili in una storia simile.
Eppure, sono ancora convinto che non sia un film così bello. Van Sant, infatti, se l’è cavata con poco, limitandosi a rappresentare l’insensatezza, la vacuità e la banale quotidianità della vita dei tanti personaggi che affollano la vicenda, senza darne il minimo spessore psicologico nè impegnarsi in discorsi etici o morali. Lo ha fatto per scelta, ripeto, e non per imperizia, eppure mi sembra una scelta abbastanza semplice, quasi scontata di fronte ad una vicenda simile. Come rappresentare una strage scolastica incomprensibile come quella di Columbine? E’ lineare: mostrandone, senza nulla aggiungere, la vuotezza. Lasciando che i fatti parlino da sè, evitando ogni spiegazione, tenendo lo spettatore a distanza, e facendo dell’impenetrabilità dei giovani protagonisti la chiave di lettura (quindi di non-lettura) del film. Sull’innegabile qualità formale e sulla bravura del regista nel rendere questa interpretazione non discuto, ma è proprio questa scelta che contesto.
Probabilmente è la mia concezione di cinema a essere poco adeguata a Elephant. Oppure sono le aspettative -sempre loro- che mi fregano. Sta di fatto che mi è sembrato che Van Sant se la sia cavata troppo a buon mercato. E quando hai l’impressione che il regista abbia in qualche modo scelto la via pìù semplice per raccontare la sua storia, un pugno nello stomaco fa molto meno male.
E’ bianco e rosso, ovviamente
Pare che i White Stripes abbiano un blog.
It’s all about music
I blog che parlano di musica hanno influenza? Se lo chiede il Guardian, in un bell’articolo di qualche giorno fa. Partendo dal successo ai Mercury Music Prize di quest’anno del semi-sconosciuto Dizzee Rascal -che dopo la vittoria ha ringraziato “tutti i miei soldati là fuori nella blogosfera”- l’articolo riflette sul ruolo che stanno avendo i blog nel diffondere e promuovere musica che spesso ha scarsa visibilità.
Si ripropone quindi il discorso che si faceva mesi fa; leggetevi questo passaggio dell’articolo:
Quello dei blog può spesso sembrare un mondo autorefenziale. In effetti, però, i blog musicali parlano di qualcosa. Come risultato, stanno trovando posto nella più larga ecologia del music business, e stanno diventando un posto dove scoprire la next big thing e godersi un po’ di scrittura di qualità sulla musica. Per i giornali musicali in particolare, i blog sono una fonte potenziale di nuovi talenti. E, mentre la loro qualità e diffusione aumenta, possono diventarne anche degli avversari.
Il Guardian però non si ferma al rapporto online/offline e blog/fonti non amatoriali ma va avanti, concentrandosi sul ruolo dei blog nella promozione di artisti poco noti. Grazie alla loro struttura, alla credibilità che ogni blogger si è conquistato presso i suoi lettori e alla sua passione di fan più che di critico, spesso i blog che parlano di musica dedicano agli artisti che amano più spazio di quanto un giornale musicale possa dare.
La cosa, dalle nostre parti, non è andata in modo tanto diverso. Mi vengono in mente vari gruppi che negli ultimi mesi sono stati protagonisti di un vero tam-tam blogosferico, partendo da uno o più blog che li hanno ‘adottati’ per approdare sulle pagine di altri blog che li hanno scoperti grazie ai primi. Impossibile non citare i Perturbazione -che se ne sono accorti– o, prima ancora, i Postal Service, Martina Topley-bird e i Radio Dept. Ma ce ne sono molti altri che ora non mi vengono in mente.
E’ come avere amici intenditori di musica che insistono per farvi ascoltare la loro ultima scoperta. Voi che fate? Gli date retta. E, di solito, scoprite che avevano ragione.
Sempre di pacchi si tratta
Peccato l’abbiano tolta: quella di Monava – Trasporti Internazionali era una pubblicità geniale.
Dear Catastrophe Deejay
Hai presente quando da bambino ti metti lì davanti al registratore, ti fingi uno speaker radiofonico e ti registri mentre presenti i pezzi come un vero deejay? Ecco, in parole povere è quello che abbiamo fatto stasera. La differenza è che non siamo bambini (se non nell’animo), non eravamo nella nostra cameretta (ma negli studi di Radio Città 103) e non stavamo fingendo. O almeno, ne eravamo convinti.
Ma andiamo con ordine. Questa sera alle 9 avrebbe dovuto esserci la segretissima puntata numero zero del programma radiofonico -nome in codice Airbag– condotto dal sottoscritto e dal suo amico Andrea, sulle frequenze di Radio Città 103. E sto usando un periodo ipotetico dell’irrealtà, quindi un’idea ve la siete già fatta.
Arriviamo in radio con il doveroso anticipo dei principianti che vogliono fare bella figura. Subito prima dell’arrivo dell’indispensabile deejay Enzo (ora promosso a coach deejay) di Polaroid, senza il quale la nostra carriera radiofonica sarebbe ancora ferma allo stato larvale, arriva la brutta notizia: per cause sconosciute, ma forse collegate al black-out di domenica scorsa, il ponte radio principale grazie a cui le frequenze della radio vengono diffuse nell’etere è caduto. Del tutto ignoti la natura del guasto, la complessità del problema e i tempi di ripristino della normalità. Allegria.
Dopo qualche minuto di smarrimento, il coach inizia a motivare la squadra, e propone un piano B. Probabilmente lo streaming è in funzione, come anche l’archivio in mp3 della radio, quindi provare a trasmettere ha comunque un senso; del resto siamo lì anche per imparare l’arte della regia, quindi tanto vale mettersi all’opera anche se solo per un pubblico potenziale di 5 persone. Un’amichevole, praticamente.
Rompiamo gli indugi, entriamo in cabina e iniziamo a darci da fare; dopo qualche disguido la trasmissione prende i binari giusti, e noi ci prendiamo gusto. Snoccioliamo vecchi successi e singoli nuovi di pacca, ci produciamo in gustosi aneddoti e imbarazzanti siparietti, e l’ora passa che neanche ce ne accorgiamo. Poco dopo le 10 abbandoniamo la postazione, soddisfatti dell’esito della prova generale, e desiderosi di ascoltarne il risultato. Ci sono gli mp3 dell’archivio, e se per caso non avesse funzionato neanche lo streaming abbiamo comunque registrato una cassetta in sala di regia (da amichevole a partitella di allenamento). Non potrà ascoltarci nessuno, ma almeno noi potremo renderci conto di come è andata. Ringrazio il coach, saluto il fido compare e mi fiondo a casa per il verdetto. E lì scopro la verità: giocavamo senza il pallone.
Lo streaming è morto, l’archivio degli mp3 vuoto e anche la cassetta è inspiegabilmente intonsa. Non ci sono tracce della nostra prima esperienza da deejay: in poche parole abbiamo giocato a fare gli speaker, come quando eravamo bambini. Con la differenza che loro almeno la registrazione la fanno.
Ma c’è anche un’altra differenza, per nulla secondaria: Venerdì prossimo, alle 9 sui 103.1 FM a Bologna e dintorni, ci riproviamo. E stavolta, magari, porto il pallone da casa.
Psycho-somatic
Ma ditemi voi se è normale che io mi ammali sempre quando ho qualcosa di importante da fare. Secondo me non tanto.
Ora mi bombo di medicine (ViVin C, mon frère), e vedrete che stasera starò uno splendore. Per domani non garantisco, invece.
Merda, a saperlo ieri
Da oggi in Florida è vietato suicidarsi ai concerti.
Adesso non gliene frega più niente a nessuno
Ma è stato scoperto il gene di suscettibilità alla SARS. Pare che sia prevalentemente diffuso nel ceppo asiatico, in particolare nella popolazione cinese, e questo spiega perchè la SARS si è diffusa soprattutto in quelle zone. Spero sia lecito usare il passato, tra l’altro.
E ora ditelo a Braccio di ferro
Magari voi lo sapevate già, ma io lo scopro ora: una delle torture con cui siamo stati vessati da bambini, ovvero l’obbligo di mangiare gli spinaci perchè fanno bene in quanto ricchi di ferro, è basato su una bufala. E con questo, ho perso anche l’ultimo punto di riferimento che mi rimaneva.
«…questo fenomeno della rete…»
Nel numero di Ottobre di Internet News c’è uno speciale sui blog. Non so se sia già uscito o meno, nè se lo comprerò (ho come l’impressione di sapere già cosa c’è scritto), ma magari qualcuno là fuori l’ha letto e mi dice com’è.
Si vede che si divertono
Metti che ti piaccia il tuo lavoro, e metti che ti venga bene. Comunque, per variare un po’, avresti degli hobby, che -di solito- sono cose che ti vengono bene, e che fai con passione. Sennò smetteresti di farle.
Ecco, metti che il tuo lavoro sia essere Josh Homme, il frontman dei Queens of the Stone Age, gruppo hard-rock (stoner, si chiamava qualche anno fa, oppure post-grunge, vedete voi) che con l’ultimo disco, Songs for the deaf, ha venduto centinaia di migliaia di dischi in tutto il mondo. Il tutto senza scendere a patti col mercato o perdere credibilità (cosa rara). Bene, metti che il tuo hobby sia contattare un po’ di musicisti, tra cui molti che stimi artisticamente ma non conosci di persona, e trascorrere con loro una settimana in una casa in mezzo la deserto californiano, con il semplice intento di suonare e registrare un disco all’impronta. E metti che l’ultimo volume di queste Desert Sessions (il volume 9 & 10) sia davvero un gran bel disco, forse pure migliore delle cose che i musicisti convenuti fanno con i loro progetti principali. Ti preoccuperesti? Io un po’ sì.
Al disco, da poco uscito, oltre al già citato Josh Homme, ha partecipato un altro grosso nome del panorama musicale: PJ Harvey. L'”anoressica corvina” (come la definiva Daniela Amenta in un’intervista di un secolo fa) appare più in forma che mai, e le 4 canzoni che canta sono le cose migliori che abbia fatto negli ultimi anni. There will never be a better time è un flamenco ululato e deviato stile To bring you my love, Powdered Wig Machine è una danza macabra e sinuosa, A girl like me, tra cantato e parlato, è una cavalcata sostenuta piuttosto perversa. Insomma, è la Polly Jean sporca e cattiva dei vecchi tempi, con al suo servizio una macchina musicale oliata alla perfezione. Anche gli altri pezzi non sono affatto male: Dead in love e In ny head…or something sono ottimi brani post-grunge in puro stile QOTSA, I wanna make it with chu è un divertente pezzo pop che gioca con i canoni del pop piano-based, e pure gli strumentali non sono niente male. Stesso discorso per il singolo Crawl Home, duetto tra la Harvey e Homme, per il quale è stato girato un video in cui –pare– il cantante californiano le prende di santa ragione dalla magrissima autrice di Yeovil.
Insomma, un disco eccellente. Si vede che in quella settimana nella casa nel deserto si sono proprio divertiti.
A ogni città l’ospite che si merita?
Come riporta Valido, questo pomeriggio alle 18.30 Chuck Palahniuk presenterà alla Feltrinelli di Bologna il suo nuovo romanzo, Ninna Nanna. Ad introdurlo ci sarà, come ospite d’onore una illustre americanista e scrittrice del calibro di Fernanda Pivano. E fino a qui, niente di strano.
La cosa che mi lascia perplesso è che la presentazione si replicherà domani, alla Feltrinelli di Milano, con -ospite d’onore- Boosta dei Subsonica. Al posto di Fernanda Pivano. E’ solo un’impressione mia o c’è davvero qualcosa che non va?
Se si accoppiassero
Ecco alcuni esempi di come apparirebbero i figli se alcuni abitanti Springfield si mettessero insieme. Semplice, ma in fondo geniale.
(via Fimoculous)
«…E’ tanto liberatorio…»
Sei nervoso? I film americano insegnano: per sfogarsi non c’è niente di meglio che dare cazzotti contro il muro o scaraventare a piacere piatti e vasellame sul pavimento. La tua rabbia è diretta contro un oggetto specifico? Ancora meglio: sbollisciti prendendotela contro l’origine della tua frustrazione?
E se si tratta di un costosissimo Pentium 4 da 3 GigaHertz che ha crashato sul più bello cancellandoti l’unica copia della tua tesi di laurea o di un prezioso Powerbook ultimo modello su cui hai ricevuto la mail della tua ragazza in cui dice che ti lascia? Poco male, come segnala Punto Informatico puoi sempre sfogarti al primo campionato di distruzione dei computer.
Ora scusatemi, vado ad allenarmi col mio vecchio 486.
Ci manca solo un’altra crisi petrolifera
Ma è possibile che io debba venire a conoscenza dell’uscita dell’ennesimo libro sui blog (questa volta la traduzione del celebre The weblog Handbook di Rebecca Blood) notandolo sugli scaffali della Feltrinelli, senza che nessuno ne abbia già parlato mesi fa? Prima il blackout, poi questo: mi sento tornato a trent’anni fa…