I miei dieci dischi del 2003
E infine ce l’ho fatta. E’ stato un parto lungo e difficile, ma anche questo fa parte del gioco. Senza ulteriori indugi, ecco i disci dischi del mio 2003.
#10. Hot Hot Heat – Make up the breakdown
Secondo me non è stato un gran anno per il rock. Ma tra tutti i giovani maledetti, bellocci e noncuranti, l’hanno spuntata i canadesi. Perchè mi ha conquistato con il tempo, perchè è il migliore da ascoltare appena svegli o prima di uscire e perchè riesce a far tornare il buon umore come solo i grandi dischi sanno fare.
#9. Erlend Øye – Unrest
Si può ballare in pista, divertendosi assai. Si può ascoltare in macchina, ed è un ottimo disco da viaggio. Si può mettere in sottofondo di sera, nella propria camera, e l’atmosfera non è niente male. Ma fondamentalmente c’è il marchio dei Kings of Convenience; e, si sa, tutto quello che toccano diventa d’oro.
#8. Broken Social Scene – You forgot it in people
Un bignami di generi musicali, una babele di atmosfere diverse, tutte con un tocco che le rendono contemporaneamente sia dei classici che qualcosa di mai ascoltato prima; in definitiva, un sacco di grandi canzoni. Quei dischi che dici «Ascolto la prossima, poi spengo», e prima che te ne renda conto l’hai ascoltato tutto.
#7. Baustelle – La moda del lento
Se fosse primo in classifica, come dovrebbe, sarebbe uno di quei dischi che detesti ti piacciano così tanto. Ma siccome viviamo in un posto dove un disco così bello non andrà in classifica neanche tra mille anni, non c’è bisogno di fingere vergogna quando ti capita di accennare un improbabile passo di danza canticchiando «Non ascoltate la reclame…».
#6. The Radio Dept. – Lesser matters
Avete presente la sensazione si spensieratezza e dolce incoscienza di cui si è pervasi «quando il danno non è ancora fatto»? Questo disco è così. Eccoli qua, gli shoegazer del terzo millennio: giovani, scandinavi, un po’ tristi e molto naif. Come vorremmo essere anche noi, ma non possiamo più.
#5. Yuppie Flu – Days before the day
Indie italiano? Non scherzo: indie italiano. E che non fa rimpiangere assai più blasonati nomi d’oltreoceano. Ma ci pensate?
#4. Radiohead – Hail to the thief
Nell’eterna disfida The Bends/Ok Computer, io ho sempre preferito il primo. E’ per questo che i dischi seguenti, anche se notevoli (soprattutto Kid A), non mi avevano mai colpito. Ma ora, lentamente, Yorke e soci stanno tornando alle loro origini. Ed è proprio l’esperienza che hanno maturato nel frattempo, adesso,a fare la differenza.
#3. Postal Service – Give up
E’ anche grazie a dischi come questo che le generazioni future stenteranno a credere che, una volta, la gente pensava che il rock e l’elettronica fossero due cose molto diverse.
#2. Devics – The Stars at Saint Andrea
La via che va dai Portishead alle torch songs della tradizione americana passa per Sant’Andrea, la voce di Sara Lov e il tocco magico di Dustin O’Halloran. E’ una via in cui l’amore è finito. Ma è dolce ricordarlo.
#1. Damien Rice – O
Addirittura disco dell’anno? Non sarà un po’ troppo? Forse sì, lo ammetto. Ma i punti tolti dal basso numero di bpm, dagli arrangiamenti troppo leccati e dalla melassa che scorre a fiumi, Mr. Rice li ha riguadagnati di diritto nello strepitoso e intensissimo concerto di Milano.
E, se proprio volete un motivo, è perchè di dischi come questo, classici istantanei fin dal primo ascolto, e in cui le b-sides sono strepitose almeno quanto le canzoni di prima scelta, ne escono pochi in un decennio. E questo è quello che è capitato a noi. E ci è andata bene.
[sì sì, lo so che almeno un paio di questi dschi in realtà sono usciti nel 2002. Ma in Italia no, quindi…]