Ce n’è per tutti, accomodatevi
I record del mondo più disgustosi.
Ce n’è per tutti, accomodatevi
I record del mondo più disgustosi.
It’s a classico
Grazie a Gecco, scopro che questo blog è stato citato, insieme ad un’altra decina di blog, sullo scorso numero cartaceo di Internet News. So che morite dalla voglia di comprarlo, ma è già uscito il numero di Maggio, quindi lasciate pure perdere. La cosa divertente è il modo in cui è citato: Inkiostro. Un classico dei weblog musicali. Cioè, sono già un classico? Di quelli in vendita a 3 euro nei cestoni dell’autogrill? Di quelli che escono in allegato a Tv Sorrisi e Canzoni? Di quelli abbinati ad altre schifezze in quei mostruosi pacchi sorpresa che si possono comprare nei cataloghi per corrispondenza? Di quelli che finiscono ospiti da Limiti o a La vita in diretta?
Beccatevi lo scan (ancora grazie a Gecco), chè io intanto ci rifletto su.
La più bella locandina di un film?
Stavo pensando proprio a questa cosa da un po’, più o meno da quando mi sono accorto che nella mia stanza, tra le decine di poster e ritagli appesi, non c’è nemmeno la locandina di un film, e non è mica una risposta facile. Sono abbastanza sicuro che quella di Arancia Meccanica non mi piaccia poi così tanto (molto meglio certe foto), non parliamo di quella de Lo Squalo o Colazione da Tiffany (film che tra l’altro non ho neanche mai visto). Di Apocalypse now preferisco la versione Redux a quella originale, gran parte dei film di Woody Allen non hanno locandine all’altezza del genio che c’è dietro (a parte evidentemente Manhattan e Annie Hall…ma lì come si fa ad essere obiettivi?), mentre quelle di Kevin Smith sono sempre un po’ inutili.
Stavo pensando che avrei potuto continuare questa sterile e parziale discettazione per ore, quando ho alzato lo sguardo, e mi sono accorto che, anche se dipinta (dalla strepitosa BlackHair), una locandina appesa ce l’ho. Credo di essermi risposto da solo.
Un cartone in flash
E se Clerks fosse stato interpretato da supereroi?
Varie Muzak (così per gradire)
+ La cosa era già nell’aria da tempo (se non addirittura dall’anno scorso), ma ora pare definitivo: Frequenze Disturbate, finora il miglior festival musicale italiano, quest’anno non si farà.
+ Una bella intervista a Paolo Benvegnù, dove il nostro si sbottona più del solito.
+ PJ Harvey e la sua frangetta possono ora essere ammirate nel video di The letter, primo singolo estratto dal nuovo album Uh Huh Her. La canzone non è un granchè, ed è forse la migliore del disco (immaginatevi le altre), ma il video è proprio carino, in particolare nei passaggi in cui PJ ‘balla da sola’.
+ Il nuovo video dei Beastie Boys, Ch-Check it out, è curatissimo come al solito, ma la canzone non vi sembra un po’ deboluccia?
+ Sul sito della DNA concerti, si può leggere che i Melt Banana hanno annullato il tour italiano di supporto ai Fantomas. Ahimè.
+ E’ invece confermata per il 7 Luglio la presenza a Ferrara sotto le stelle dei Belle & Sebastian, non si capisce bene se con (come è scritto qui) o senza (come è scritto qui) i Rapture. Accoppiata improbabile o meno, spero che comunque anche il gruppo newyorkese passi da queste parti.
Della serie: come buttare via un pomeriggio
Miiii, lo spirografo!
Imperdibile
Non sarò mai abbastanza grato a Mr. W0lf per aver scoperto il lato oscuro del leggendario Leonard Nimoy (l’indimenticabile Spock di Star Trek): mi riferisco ovviamente alla sua carriera discografica, che gli ha consentito di produrre un capolavoro come The ballad of Bilbo Baggins, di cui potete godervi l’mp3 e lo splendido video. Quest’ultimo è talmente bello che merita un’occhiata, non fosse altro che per lo scenario vintage, le coreografie e le finte orecchie a punta.
Venghino signori che qui c’è il vino buono
Stylus Magazine, la webzine americana di musica snob che più ci piace, recensisce senza lesinare sui superlativi Verità Supposte di Caparezza, definendolo «un pretendente al titolo di album non-in-inglese dell’anno», ed attribuendogli niente meno che un 9. Orgoglio patrio? Via, ogni tanto non guasta.
Contro Urbani senza se e senza ma
Massima attenzione sul folle decreto Urbani, in discussione in questi giorni al Senato: una campagna del senatore verde Cortiana mira a cambiarne quelle poche paroline che significano anni di prigione per tutti gli utenti dei sistemi P2P privati rispetto a una semplice multa, e a modificarne altri punti cardine davvero improbabili. E, se siete giuristi o avete comunque esperienza di diritto, fatevi quattro risate leggendo questa analisi che mette in luce le tantissime assurdità del decreto e andate qui a proporre degli emendamenti.
Indie-cazioni per un futuro incerto
[Post scritto sotto l’effetto di abbondanti dosi di paracetamolo, echinacea e ambroxol cloridrato. Perdonate le idiosincrasie e la lunghezza, ma finchè ho la scusa dell’influenza sono coperto. Questo post non è una recensione del concerto dei Radio Dept; è un delirio più per me che per voi -scritto in seconda persona, tra l’altro: davvero insopportabile- quindi potete anche fare a meno di leggerlo e tornare domani]
Sabato sera c’era un sacco di gente. Tu, in realtà, te lo sentivi, ma siccome il tuo istinto ha smesso di funzionare parecchi anni fa (ammesso che abbia mai funzionato), non ti fidavi, e tendevi come sempre ad essere pessimista e ad aspettarti il meno possibile. Ma questo è un altro discorso, che non hai intenzione di fare ora.
Sabato sera c’era un sacco di gente che conoscevi. Il che, in realtà, era abbastanza ovvio: alcuni sarebbero venuti comunque, altri sono venuti sotto la minaccia che gli avresti tolto il saluto -far valere i rapporti amicali, una volta ogni tanto, è cosa buona e giusta-, alcuni erano blogger e dovevano dimostrarne il potere mediatico di smuovere le folle (ecc ecc), altri non sai perchè c’erano, ma c’erano. C’era anche della gente che di solito non viene al Covo; ad alcuni il concerto non è piaciuto (e questo, in effetti, non è così sorprendente), ad altri invece sì (e questo è bellissimo), anche se gli spocchiosi come te pensavano non avessero gli strumenti culturali (leggi: adeguata preparazione musicale) per apprezzarlo. Ulteriore prova, se ce ne fosse stato bisogno, che la musica pop, nel senso più ampio del termine, non è un’arte come le altre, e fa della naïveté uno dei suoi pilastri.
Sabato sera, 3 persone diverse, in 3 momenti diversi, ti hanno chiesto cosa significasse la parola ‘indie’. Tu hai nicchiato, hai detto di non avere voce, che era un argomento troppo complesso per parlarne con la febbre, e che, in realtà, nessuno lo sa di preciso ed ognuno ha un’idea molto sua della cosa. Ora, non che tu adesso stia molto meglio, ma un’idea te la sei fatta. Avresti dovuto rispondergli: «prendi me questa sera, io sono indie».
La sfiga è indie. La sfiga di avere 38 di febbre (ora glielo puoi svelare: ce l’avevi eccome, la febbre) la sera del concerto che hai passato almeno un mese ad organizzare, ad esempio. La sfiga di essere in condizioni così pessime da non aver voglia neanche di andare a parlare coi membri del gruppo che hai fatto tanto per portare qui, o di andare a fare le inevitabili public relations che -fortunatamente- Enzo, laLaura e Lucio sanno fare assai meglio di te. La sfiga di non poter portare a termine il lavoro faticoso proprio quando comincia a dare i frutti ed affiorano gli aspetti piacevoli (in più di un senso, e più di un lavoro). La sfiga di essere talmente poco lucido che il tuo cervello ci metteva almeno 3 minuti ad elaborare una risposta decente ai (troppi) stimoli esterni che lo bombardavano, e almeno altrettanto le tue corde vocali ad esprimerlo in forma intellegibile a forme di vita non in grado di percepire gli ultrasuoni.
Anche il successo, però, talvolta è indie. Quando un manipolo di geek riescono dal nulla a portare 250 persone a vedere dal vivo un gruppo il cui disco in Italia è impossibile da trovare (benedetto sia il peer to peer), e anche nel resto del mondo non è che ci siano proprio i cartonati ad ogni angolo dei Virgin Mega-store, ad esempio. Il successo che imbarazza una band che si guarda le scarpe e non sa come affrontare l’entusiasmo del tutto inatteso di un locale strapieno di gente che applaude e urla, e solo per loro. Ma anche il successo dell’organizzazione, quando ogni applauso all’annuncio della prossima canzone e ogni ovazione alla fine lo vivi immodestamente come un applauso a te e ai tuoi soci, a quello che siete riusciti a fare (organizzare, informare, esserci), e pensi che per una volta, davvero, l’entusiasmo che ti circonda è anche merito delle mille mail scritte, delle tante telefonate, dei pomeriggi ad attaccare le locandine e le serate a distribuire i volantini e dei banner e del comunicato stampa e dei passaggi in radio, e degli spot e degli articoli e di tutti gli amici che vi hanno aiutato a spargere la voce, con una generosità di cui hai quasi paura di aver bruciato ogni credito per cento anni a venire. Il successo di esserci, ma solo a metà. Come un blog che fa il suo record di accessi giornalieri in un giorno in cui non c’è scritto niente di nuovo, o di un gruppo che si porta solo 40 copie dei suoi dischi da vendere rimanendo sconcertato per la velocità con cui vanno esaurite e per la quantità di persone che rimangono senza.
Sabato sera, per te, è stato un po’ un giorno zero. Più nel senso di qualcosa che finisce, piuttosto che di qualcosa che inizia. Le cose che finiscono sono un sacco indie. La pioggia che minaccia di cadere a minuti è indie. I tuoi prossimi mesi di disoccupazione da 110 sono davvero molto indie. Il fatto che i Radio Dept non suonino la tua canzone preferita è indie a manetta, come lo è il fatto che debbano essere convinti dalle insistenze degli organizzatori a suonare il loro migliore singolo, e che per farlo abbiano bisogno del tuo capotasto (che tu speri ora sia in Svezia con loro, e che abbia anche lui parte nelle prossime canzoni che scriveranno). Gliel’avete permesso, e le cose strane sono successe. Come previsto, il danno è stato fatto. E tu, che avresti dovuto e voluto essere investito in pieno, per vedere cosa ne veniva fuori, stavi trascinando (più che spingendo) il tuo peso, ed eri troppo annebbiato dal paracetamolo e dal nimesulide per tenere la posizione. Hai visto le cose solo di lato -ed infatti vedere le cose di lato è un sacco indie- ed ora le interpreti come indicazioni per un futuro quanto mai incerto. Un’incertezza che, sei sicuro, ai Radio Dept non dispiacerebbe. E ora, dopo tutto questo, neache a te.
<inserire qui imprecazione violenta e scurrile>
Se non ce la faccio per domani sera la considererò come una prova dell’inesistenza di Dio e diventerò adepto di scientology.
Ecco un posto dove vivrei
[non fosse che -ovviamente- è opera di Photoshop, e viene dal sito scritto in basso a sx]
Questo dubbio mi perseguita da giorni
Si scrive: ‘ci se ne accorge’ o ‘ce ne si accorge’? O sono entrambi giusti? O hanno sfumature di significato diverse? La mia fiducia (?) nella lingua italiana sta vacillando.
In[]coscienza
C’è quel momento preciso, il momento in cui tutti i muscoli sono riottosi ma le labbra sono costrette a piegarsi in un sorriso, gli occhi guardano in alto, probabilmente cercando una risposta dal cielo che non arriverà mai, ed è come in quella canzone che parla dell’acqua che entra dai buchi nel soffitto e sta riempendo tutti i secchi, con quella esaltazione irrazionale che hanno solo i bambini davanti ai disastri irrimediabili. Ed è l’incoscienza di chi si vota alle cause perse ed ha paura ad esprimere dei desideri perchè potrebbero avverarsi, dei passanti di Cloe che si incrociano ma non si salutano, di chi inizia un assolo senza sapere come finirlo, con l’unica sicurezza che a un certo punto strapperà un sorriso a tutti passando da una tonalità di quinta ad una settima. E’ il momento preciso in cui il giocatore di poker abituato a non avere niente in mano si trova con un tris, e pregusta già tutto quello che farà con il piccolo cumulo di fichès che occupa il centro del tavolo. Ed è così contento, senza bluffare (senza neanche pensarci), che magari il suo vicino, che ha un full, sceglie di non fidarsi. E gli lascia la mano.
A proposito di frangette
Le nuove foto promozionali di PJ Harvey parlano chiaro: Karen O ha fatto scuola. Ahimè.
[altre foto dello stesso servizio]
Da buzz is growing
«Ma avete davvero tappezzato la città! E’ pieno di locandine ovunque» (forse intendevi ERA)
«Che bel flyer! Mi sa che ci vengo»
«Ma ci saranno le magliette e le spillette, vero?»
«Bisogna scriverlo più corto, il comunicato, sennò non lo leggono»
«Mettine più di una attaccata, almeno si nota meglio»
«Ma sono quelli di cui parla oggi Repubblica nell’articolo sui blog?» (sì)
«Bastardi, al Pratello ce le hanno già coperte quasi tutte»
«Argh, vi è scappata una ‘s’ di troppo in My bloody Valentine!!»
«Se il Primo Maggio piove magari veniamo»
«Ma davanti a Nannucci non l’avete messa?» (c’era, l’avranno tolta)
«Chissà se viene anche Beppe Recchia»
«Quale brutta notizia c’è, oggi?»
«Ho attaccato la locandina in studentato e lasciato il cd nel computer comune, vedrai che a qualcuno piaceranno»
«Beh, sì, ci sentiamo tutti i giorni varie volte al giorno»
«Ho letto sul blog di uno sconosciuto diciottenne che lui e i suoi amici verrano»
«Mi spiace, il primo Maggio proprio non posso. Ma lo dico a un mio amico, a lui probabilmente interessano»
«Ma davvero tutto questo sbattimento e non ci fate una lira?» (manco una; è un miracolo se non ne perdiamo troppe)
«Se lo attacchi così consumi meno scotch e ci metti meno tempo»
«Prima su Radio Città del Capo nel giro di 2 ore e mezza sono passate tre canzoni e una pubblicità del concerto» (grazie. di cuore)
«Gli ho fatto una copia del cd, ha detto che l’ascolta e forse ci scrive un pezzo sabato per la pagina degli spettacoli»
«Sabato sera avrai un sacco di gente da intrattenere, eh?» (mi accontenterei di potermi almeno godere il concerto; il resto del tempo sarà un delirio)
«Facciamo una macchina e veniamo, non importa quanto dista»
«Non organizzerò mai più un concerto in vita mia. Ma sono fiero di averlo fatto»
«Senti, ma chi sono questi Radio Dept?»
[e dei problemi parliamo un’altra volta, eh?]
I gemelli cattivi del viral marketing
La Ford ha tentato di giocare col fuoco del viral marketing, e le è andata male. In breve, per lanciare la SportKà -la gemella cattiva della Kà, come recita il claim- la Ford ha deciso di affidarsi a due creativi un po’ bizzarri e a una campagna virale via mail che è stata annullata prima di cominciare. Ma il danno era già fatto, e i due spot ‘cattivi’ si sono comunque diffusi in rete, facendo, a tutti gli effetti il gioco della casa automobilistica americana (la storia completa è qui). Sempre che gli si voglia credere, è chiaro. In ogni caso, i due spot sono assolutamente brillanti, e meritano di essere visti: quello del piccione è corto ma fulminante, mentre quello del gatto è assolutamente splendido nella sua truculenta mancanza di pietà. Tasto destro, Salva Oggetto con nome.
[grazie a Checco]
Aprile è il mese più crudele
+ Perchè genera lillà dalla terra morta, mescola ricordo e desiderio, eccita radici spente con la pioggia di primavera (e questo lo dice il poeta, non io)
+ Perchè il mio portafoglio è tragicamente vuoto a causa di tutti i concerti, cene, regali di laurea, biglietti del treno, pedaggi dell’autostrada, alcolici in grande quantità, bollette telefoniche e varie spese dissennate.
+ Perchè è impossibile trovare un lavoro, «torna a Settembre», e se magari lo trovi ti tocca stare a lavorare tutta l’Estate per poi essere scaricato a Settembre. Stai attento a cosa desideri, potresti ottenerlo.
+ Perchè alcune canzoni, una ogni paio di giorni, più o meno, mi si piantano nel cervello e prendono possesso di me costringendomi a fare cose che non dovrei fare. O a non fare cose che dovrei fare. Insomma, sempre way too far.
+ Perchè tra quattro giorni sarà finito. E sarà stata un’altra Primavera sprecata.
This charming Festival
Uff, ora bisogna pure andare al Flippaut…ma quest’anno è un’emorragia…
Chessidice di Coe
Non ricordo chi, qualche tempo fa, mi chiedevo se sapessi qualcosa di The closed circle, il prossimo libro di Jonathan Coe, che continua e conclude le vicende raccontate nel brillante La banda dei Brocchi. Bene, leggo ora che l’uscita dell’edizione inglese è schedulata per il 30 Settembre, quindi direi che la versione italiana uscirà non prima del 2005. Nel frattempo, invece, la Feltrinelli ha appena pubblicato Caro Bogart, la biografia del celebre attore scritta da Coe (risaputo cinefilo) una decina di anni fa.
Un altro mito che cade
Due urologi inglesi hanno dimostrato che non c’è relazione tra la lunghezza del piede e quella di…su, avete capito. Quindi, care fanciulle, ogni speranza di avere indizi esterni è inutile; per quanto riguarda queste cose dovete verificare di persona..
Everybody wants to be a PJ (but herself)
PJ Harvey è stata senza ombra di dubbio uno dei più grandi talenti musicali degli anni ’90; su questo -spero- siamo tutti d’accordo. Su di lei è ormai ricalcato un certo modello di rocker al femminile, capace di incarnare al contempo forza e debolezza, che sa passare senza soluzione di continuità dal rock più rabbioso alle ballate più morbide, dando un ritratto della femminilità a 360° e sfuggendo agli stereotipi della folksinger o della starlette del pop che solo poche artiste prima di lei (Patti Smith e Soiuxsie Sioux su tutte) erano riuscite ad evitare. In Dry, Rid of me e To bring you my love (trilogia da brividi, a ripensarci), Polly Jean cantava il sesso, l’amore, l’insicurezza, ma anche le mestruazioni, gli ambigui rapporti tra i sessi e la disperazione dell’amore perduto. Una personalità fortissima, un’intensità quasi ineguagliabile, e una serie di canzoni (volete tre titoli? Ne butto là tre, una per album: Oh my lover, Missed e The dancer) praticamente perfette. Sono in tante a doverla ringraziare, a partire dalla prima Alanis Morrissette fino a Fiona Apple, da Cat Power a Carmen Consoli, a tutte le rockeuse incazzate e problematiche a cui PJ ha fornito un modello se non musicale almeno stilistico e mediatico.
Ed è proprio la PJ controversa degli esordi ad essere il modello principale di due artiste che mi sono trovato ad ascoltare ultimamente: Shannon Wright e Carina Round. La prima è uscita da poco con Over the sun –prodotto dall’ubiquo Steve Albini (che produsse Rid of me)- un disco cupo, potente e contorto in cui chitarre distorte ed angoscia vanno a braccetto con desolate ballate pianistiche come le farebbe una Fiona Apple un po’ più art. La seconda (delle cui metamorfosi grafiche e origini chietine parlava Zazie giorni fa), mi sta deliziando con Disconnection, bel disco ristampato recentemente da una major, in cui l’influenza di PJ si sente di brutto nell’uso della voce e nella costruzione delle melodie. Entrambi sono dischi eccellenti, che credo avranno lunga vita all’interno dei mio lettore cd.
Tornando a PJ, nel corso degli anni la sua vena si è un po’ spenta. Un paio di album minori (belli ma non proprio facili), poi il grande successo di Stories from the city, stories from the sea, che abbandonava i contrasti e l’incisività degli esordi per appiattirsi su un modello pop rock banalotto con Patti Smith come unico spirito guida, e poche canzoni (tra cui il duetto con Thom Yorke) a lasciare il segno. Dopo i canonici 3 anni di silenzio, tra poco più di un mese uscirà il suo nuovo album, Uh Huh Her, che si preannuncia come un ulteriore passo indietro: si tratta, esattamente come l’aveva descritto lei, di un disco «blues, cupo e brutto», ma queste tre parole (che mi avevano fatto sperare in un ritorno all’intensità degli esordi) sono da intendersi nell’accezione più negativa possibile. Le canzoni si fanno ripetitive e monotone, la voce sembra ormai un clone in tutto e per tutto di quella di Patti Smith, e dopo un paio di ascolti nessuna delle canzoni ha lasciato la minima traccia di sè, neanche il primo singolo The letter (che parte bene ma non decolla mai). Pare quasi che PJ Harvey faccia di tutto per buttare all’aria il suo talento confezionando canzoni poco pretenziose che non vanno da nessuna parte, rimanendo a un livello superficiale dove prima scavava e metteva a nudo i lati più oscuri e dolorosi delle cose.
Certo, il 19 all’Heineken Jammin Festival saremo là anche per lei (non ci avessero infilato Ben Harper in mezzo -sì, lo so che dal vivo è bravo, ma insomma, se ne faceva volentieri a meno- sarebbe stata una serata perfetta), ma probabilmente staremo chiamando a gran voce i pezzi vecchi della PJ perduta, che mentre tutte vogliono essere come lei, rinuncia ad essere se stessa.