Canzoni d’inkiostro:
Let me kiss you
C’è un posto al sole per chiunque abbia voglia di cercarsene uno, e io credo di aver trovato il mio. Sì, per una volta credo di aver trovato il mio. Anche se è solo per poco. La durata di una canzone. O poco più.
L’ultimo disco di Morrissey, You are the quarry, è stato bistrattato (o al massimo trattato con cauta condiscendenza) da tutti, eppure contiene una ballata smithsiana -17 anni dopo lo scioglimento di quella che rimane una delle più grandi band di tutti i tempi- talmente perfetta che, se fosse contenuta in The Queen is dead, sarebbe ora un classico imperituro: Let me kiss you. In essa Morrissey è talmente Morrissey da sembrare quasi l’imitazione di sè stesso; e per uno che in qualche misura è sempre stato l’imitazione del proprio modello, inevitabilmente persona e personaggio insieme, vuol dire non essere cambiato. E c’è quella chitarra marrana, nel senso di scorretta nel suo prevedibile eppure geniale languore, ma anche nel senso di vicinissima allo stile di Johnny Marr, il cui tocco prodigioso si è ormai perso nel tempo e torna fuori sempre più di rado (in Concrete sky di Beth Orton, per dirne una). La voce, le parole e la personalità di Morrissey, la chitarra alla Marr: tutti gli ingredienti perchè la magia degli Smiths possa tornare a ripetersi.
Let me kiss you è una canzone d’amore. A dispetto della propria apparente semplicità, non si tratta di una canzone banale. E’ la canzone di chi cerca una spalla su cui piangere e compiangersi, o meglio di chi crede di cercarla, e nasconde la propria incapacità di maneggiare un sentimento imprevedibile dietro l’insicurezza per il proprio aspetto fisico. E’ la canzone di chi vuole e non vuole, di chi non desidera di essere baciato ma di baciare. Ma non si azzarda a farlo, e chiede il permesso. Proprio perchè sa già che la risposta non potrà essere un ‘no’, ma non capisce il perchè, e non si fida del posto al sole, per quanto precario, che ha trovato. E’ la canzone d’amore di chi non si capacita di quello che ha ottenuto, e deve prima fare i conti con sè stesso per potersi dare veramente. Non è un argomento scontato di cui parlare, e Morrissey è esattamente la persona giusta per farlo.
Sul finale, la canzone cambia. Lui chiede a lei di aprire gli occhi, per potersi rivelare in tutta la sua nuda insicurezza, ormai certo che la sua confessione a cuore aperto gli garantirà una risposta positiva. La solita storia: una fiducia in sè al contempo misera e smisurata. A quel punto la canzone sembra finita, ma non lo è. Al successivo giro armonico entra il pianoforte, e mi piace pensare che in quel momento i due si stiano avvicinando, pronti a realizzare ciò che nei minuti precedenti si sono promessi. Quando, subito dopo, entrano gli archi (sintetici, ma a questo punto che differenza fa?), i due iniziano effettivamente a baciarsi. E a quel punto la situazione non ci interessa più. Dopo una decina di secondi -non di più- il brano sfuma, perchè questa non è una canzone su un bacio; che duri molto o poco, che sia deludente o indimenticabile, che sia un inizio o una fine, non è importante. A quel punto, infatti, sarà comunque successo. E -in ogni caso- ne sarà valsa la pena.
[Le vecchie canzoni d’inkiostro: West country girl di Nick Cave and the Bad Seeds, Where I end and you begin dei Radiohead, Rosemary di Suzanne Vega, Float on dei Modest Mouse. Poi mi sa che ce n’erano altre, ma non mi ricordo]