Miscellanea

lunedì, 12 05 2014

Psicopatologia spicciola del dj pretenzioso. Cap 9. L’inevitabile ritorno

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Cala il buio come ogni venerdì sera a Goddam City. Negli ultimi anni i locali si sono moltiplicati, per uno di quegli effetti inspiegabili della crisi, o forse invece spiegabilissimi. La gente in mancanza di meglio si butta sull’alcol e sulla vita notturna, non vuole pensare agli aspetti negativi e noiosi dell’esistenza. Inutile starsi a chiedere dove trovino i soldi: li trovano.

 

Intere vie costellate di vetrine aperte e illuminate, posti nuovi che spuntano a mazzi da quattro, l’aria tiepida e inebriante di maggio come adrenalina, locandine di festival e concerti affisse su tutti i muri, gente che beve dai bicchieri di plastica per strada, fuma appoggiata alle auto, feste che si accavallano, compagnie vocianti in gran tiro che transumano da una birroteca a una vineria, da un pub a un cocktail bar, da un club a un kebabbaro.

 

E musica. Musica ovunque. Musica a volume altissimo. Musica di ogni genere. Musica per quasi tutti i gusti. Un incremento inusitato di potentissimi soundsystem professionali, un proliferare mai visto prima di dj.

 

I negozi di materiale elettronico hanno visto un’impennata senza precedenti nelle vendite di attrezzatura per giramanopole: controller, microfoni, mixer, cdjs, casse amplificate, luci strobo, addirittura giradischi! Ci sono decine di nuovi dj, nomi mai sentiti prima che rimbalzano da venue a venue, da party a party, da consolle a consolle. Dj che diventano popolarissimi nel giro di un mese, dj che grazie al loro vorticoso giro di amicizie sui social network riempiono bar senza nemmeno lo sbattimento di attaccare una locandina, distribuire un flyer, fare una telefonata. Dj che escono dalle fottute pareti.

 

Se hai il dj giusto il tuo locale è pieno, la gente balla, si diverte, beve di più. Se hai il dj giusto faresti bene a tenertelo stretto, a pagarlo bene, a trattarlo coi guanti, può essere una vera benedizione per le tue casse, di questi tempi. Se hai il dj giusto sei a posto.

 

I dj migliori sono già stati opzionati tempo fa dai locali più importanti. Ormai i superstar djs di Goddam City ci mandano i loro giovani apprendisti a mischiare dischi per l’aperitivo. Loro entreranno acclamati in scena tassativamente dopo la mezzanotte, quando le platee saranno già cariche e moriranno dalla voglia di ballare le canzoni più famose. Arriveranno scortati, fra gruppi di ragazze in deliquio, accolti da salve di ultrasuoni che diverrano insopportabili appena varcheranno la soglia della postazione e indosseranno, accigliatissimi, le loro cuffie placcate in oro massiccio.

 

Fra i gruppetti di nottambuli ambulanti si aggira con passo nervoso anche una figura scura, solitaria, ricurva, si direbbe un uomo. Abbigliamento invernale, cappuccio della felpa calato a coprire il volto, mani in tasca. Schiva rapido i capannelli di ragazzi che chiacchierano fuori dai locali, ma si ferma come impietrito ogni volta che da un impianto parte un pezzo nuovo. Si blocca. Poi ha un fremito come di rabbia che trattiene a stento e gli scuote tutto il corpo. Stringe i pugni in tasca, ma questo non lo può sapere nessuno. Se qualcuno avesse l’ardire di passargli accanto lo sentirebbe ringhiare sommessamente e farfugliare sottovoce dei fonemi incomprensibili, simili a litanie antiche di qualche esotica tribù amazzonica.

 

L’uomo misterioso rallenta il passo e capta la conversazione fra due bellissime ragazze che annoiate sorseggiano mojito annacquati appena fuori da un wine-bar

 

“Certo che con tutti questi locali c’è solo l’imbarazzo della scelta eh?”
“Sì, infatti solo che la musica… forse qualcuno potrebbe osare un po’ di più. Voglio dire, tanti posti ma quasi la stessa roba ovunque, è tutto così poco originale. Sarei molto più felice e disponibile a scatenarmi davvero se ci fosse un po’ di selvaggio rock!”
“Hai ragione! Magari di quello indipendente che piace così tanto a noi giovani di oggi, sai tipo i gruppi che suonano a quel festival enorme a Barcellona o di cui scrive quella rivista americana su internet, Pitchfork!”
“Guarda, non me ne parlare, se stasera potessi ascoltare un pezzo, ma non chiedo tanto eh, che ne so, degli His Clancyness, non so cosa darei. Una volta, dicono, c’era uno qui che metteva quella musica, o una cosa del genere, così mi hanno raccontato. Pensa che bello doveva essere!”
“Sì, ne ho sentito parlare anche io una volta, ma secondo me dev’essere qualche leggenda metropolitana, tipo il coccodrillo bianco nelle fogne di New York”
“Aahaha, hai ragione, figurati se permetterebbero mai a qualcuno di mettere su un pezzo dei Cloud Nothings!”
“Ahahah, ma sei pazza? Guarda, se uno di questi dj da strapazzo mettesse una canzone del genere stasera sento che sarei anche più aperta e disponibile a incontrare qualcuno”
“Ahah, incontrare, vorrai dire limonare!”
“Ahah, che scema che sei, dai vieni qua, facciamoci un selfie e mettiamolo su Instagram, sbottona un po’ quella camicetta, su!”
“Ahahah, sìì facciamolo, sex and drugs and indie rock! Ahahah!”

 

Finito il giro dei bar il losco figuro si incammina verso casa a testa bassa. Appena entrato punta verso il frigo, lo apre, prende una birra del Lidl, si siede davanti al suo pc, si scola la lattina, apre la posta.

 

Una mail nuova nella mailbox. Magari è la sua ex moglie che chiede spiegazioni sui ritardi nel versamento degli alimenti. Magari è la solita newsletter settimanale di una delle duemila imprescindibili label svedesi specializzate in synth-pop. Magari no. La apre.

 

“Caro dj pretenzioso, siamo i gestori del beer bar SBEERRO. Scusa se ti contattiamo così in ritardo, ma siamo in stato d’emergenza: Smurg, il nostro dj resident, ha vissuto recentemente un grave e bizzarro lutto in famiglia: sua nonna è venuta a mancare (sembra abbia ingerito cibo per topi!) e del suo socio, Dj Pong, non si hanno notizie da giorni. Ci chiedevamo se potessi farci la cortesia di sostituirlo, almeno per la serata di domani, poiché con tutti i dj della città già prenotati in giro ci troviamo in grossa difficoltà e non possiamo assolutamente cancellare l’evento all’ultimo minuto. Ovviamente per il compenso potremmo al massimo offrirti qualche birra. Facci sapere”.

 

Chiude la posta elettronica, spegne il pc, si alza. Prende un’altra birra del Lidl, ma non la stappa. Va in bagno. Schiude il vetro del box doccia dove si trova seduto a terra, legato e imbavagliato, un ragazzo che si dimena e tenta di urlare, con le lacrime agli occhi.

 

“Ciao Pong, com’è andata la giornata? Ti andrebbe una birretta? Se prometti di non strillare puoi avere questa lattina bella ghiacciata. Guarda, non l’ho nemmeno aperta, non devi avere paura del veleno per topi stavolta. Lascia perdere la nonna di Smurg! Era una donna malata, l’eutanasia un tema assai dibattuto, la terza età molto sopravvalutata. Le ho fatto un favore, credimi. Allora, che ne dici, brindiamo al mio nuovo ingaggio?”

mercoledì, 16 01 2013

Quelli che amano la neve, quelli che la odiano e quelli che postano Totoro

Il mondo si divide in due tipi di persone: quelli che amano la neve anche quando gli incasina la giornata e gli fa saltare ogni logistica e quelli che la odiano e non la possono neanche vedere.

Oggi qua nevica; guardate l'immagine qua sotto e indovinate a quel dei due gruppi appartengo io.
[immage via]

 

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lunedì, 30 07 2012

Generation Sell

Cosa caratterizza e distingue le nuove generazioni dalle vecchie? Cosa si cela sotto il meta-tutto, il post-tutto, l'approccio autoironico e la continua ricerca di novità dei figli degli anni zero (gli hipsters, ma più genericamente, i cosiddetti millenials)?

William Deresiewicz in Generation Sell prova a dare una risposta sul New York Times. Non completamente a fuoco, ma con alcuni passaggi convincenti, come questo: 

 

Well, we’re all in showbiz now, walking on eggshells, relentlessly tending our customer base. We’re all selling something today, because even if we aren’t literally selling something (though thanks to the Internet as well as the entrepreneurial ideal, more and more of us are), we’re always selling ourselves. We use social media to create a product — to create a brand — and the product is us. We treat ourselves like little businesses, something to be managed and promoted. [#]

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venerdì, 20 01 2012

Shit New Yorkers say

Se capisci tutti i riferimenti di Shit New Yorkers say e se qualche volta hai detto qualcuna di queste frasi, forse sei un pochino un new yorker anche tu.

(magari)

 

 

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mercoledì, 14 12 2011

Dizionario della Crisi / 3

di

 

tecnocrazia (s.f.)

La parola è giovanissima. Nonostante l'idea sia stravecchia. E anche se si tratta di una combinazione di parole greche (per significare il "dominio della tecnica" o forse "dei tecnici"), tecnocrazia arriva all'italiano passando per l'americano. Secondo il Dizionario Etimologico Le Monnier, la nascita della parola risale al 1931. Ma technocracy la usa già nel 1919 l'ingegnere californiano William Henry Smith in un articolo-saggio (pdf) alquanto strampalato. Smith, in soldoni, voleva che l'organo supremo di tutte le istituzioni fosse un Supremo Consiglio Nazionale degli Scienziati al fine di "consigliarci e istruirci su come Vivere meglio e su come realizzare nella maniera più efficiente il nostro Fine Individuale e Nazionale".

 

Era l'entusiasmo per il progresso scientifico e tecnologico a ispirare gli utopisti tecnocratici. Tantissimi però, nei secoli precedenti, erano stati tentati dall'idea apparentemente molto ragionevole per cui il problema del governo sarebbe, in realtà, un problema tecnico. Chi meglio di uno scienziato, un esperto della materia, un intelligentone può risolvere le questioni poste ai governanti? Le tecnocrazie immaginate nei secoli non sono, però, tutte uguali. Nella Repubblica di Platone, lo Stato ideale è governato dai filosofi. Nella Nuova Atlantide di Francis Bacon (1626), la società è organizzata sulla base di principi scientifici e tecnologici e i governanti sono tutti volti al progresso della scienza, quale mezzo per il progresso della società stessa. Ma è con la prima rivoluzione industriale che la tecnocrazia comincia ad avere un sapore moderno. Per Saint-Simon, il sapere dei tecnocrati non è più filosofico o astratto: è industriale. Sono gli "industriali-dirigenti" a porsi al vertice della società e a orientare la società verso il benessere colletivo grazie al loro sapere strategico e pratico. E con gli ingegneri radicali del movimento tecnocratico americano, nella prima metà del '900, si passa a teorizzare "un soviet di tecnici autoselezionato" per governare la società. Nel corso degli ultimi decenni, il primato dell'economia ha dato alla tecnocrazia un forte connotato manageriale. Il decision-maker per eccellenza è diventato il direttore d'azienda, l'uomo che unisce sapere e carisma, conoscenze tecniche e azione pratica organizzativa. Infine, con l'ingigantirsi del captialismo finanziario, il tecnico, il sapiente è diventato l'esperto di finanza, l'investment banker, l'uomo di Goldman Sachs (che in America chiamano "Government Sachs" per il continuo scambio di poltrone tra la potente banca e Washington).

 

La tecnocrazia è tornata di moda grazie alla crisi del debito pubblico europeo. Sia in Grecia sia in Italia, i governi in carica sono stati sostituiti da economisti che hanno rivestito importanti cariche ai vertici delle istituzioni europee. E' una roba antidemocratica? Per qualcuno sì. E purtroppo qui in Italia – ci siamo abituati – i difensori della legittimazione popolare sono spesso gli stessi che più frequentemente sbandierano intolleranza, egoismo tribale e populismo-spettacolo come loro valori chiave. Ma il problema non è così semplice. Il tecnico dovrebbe avere le competenze per sapere come far bene certe cose. Ma chi decide quali cose vanno fatte? La scelta dei fini (così si dice) dovrebbe appartenere al campo della politica. E l'idea di una tecnica che prevale sulla politica rischia di sfociare nell'idea malsana per cui le ricette, i fini, le scelte non sono più discutibili. 

 

Sul New York Times due editorialisti assai diversi (forse i più diversi tra le firme di quel quotidiano) hanno parlato di tecnocrazia proprio nei giorni dell'insediamento del Governo Monti, quando la parola finisce sulla bocca di tutti, in tutto il mondo. David Brooks coglie l'occasione per criticare alla radice l'utopia europeista. Per Brooks, la crisi di questi mesi è colpa dell'ideologia tecnocratica, cioè dei burocratici elitisti che si sono convinti di poter creare una superstruttura economica e giuridica senza una comune base culturale, linguistica, civile e storica. Sono stati loro, dice Brooks, a mettere assieme ciò che non può stare assieme. E se siamo a questo punto è colpa della convinzione di questi "grigi uomini arroganti" di poter giocare con l'ingegneria sociale di nazioni diverse. La critica di Brooks usa argomenti abbastanza comuni per il pensiero conservatore: lingua, costumi, cultura, nazione contro l'utopia razionalista dei progressisti. Ma anche il super-liberal Krugman, tre giorni dopo, bacchetta l'impossibile utopia dell'Euro. Soltanto, dice lui, che non è colpa della tecnocrazia. I problemi della moneta comune sono, secondo Krugman, esattamente problemi tecnici. E gli uomini che hanno voluto l'Euro nonostante i mille rischi tecnici non sono per nulla dei tecnocrati, bensì dei romantici crudeli e senza alcun senso pratico, che hanno imposto enormi sacrifici alla gente in nome di una visione ideologica di unità e unificazione. 

 

Purtroppo, la voglia di tecnocrati che si è diffusa per l'Italia non è semplicemente data dal rispetto per le competenze specifiche necessarie in questa difficile circostanza. A ben vedere, non ci vuole neppure una grande scienza per stringere sulle pensioni e aumentare le solite imposte e accise. La voglia di tecnica è tutta psicologica. Sappiamo tutti che ci vogliono misure impopolari ma siamo pronti ad accettarle (seppure a malincuore) solo da chi è a-popolare, cioè non scelto da noi, cioè un tecnico. La tecnica è come la lotteria: sono loro a scegliere, non i "nostri". Berlusconi non avrebbe rimesso l'ICI. Bersani non avrebbe tagliato le pensioni. Ci è andata male, ma tant'è. Possiamo consolarci col fatalismo della tecnica. E' colpa di qualcun altro.

 

Per non fare l'abitudine all'idea che sia meglio un "custode sapiente" che un politico eletto ci soccorrono due ammonizioni importanti. La prima, classica, viene da Karl Popper, che al liceo nessuno arriva a studiare (almeno ai miei tempi, quando i prof di filosofia erano ancora – sebbene ancora per poco – "tutti comunisti"). Che ci ammonisce contro le teorie politiche di Platone del filososo-re e dice che è una roba totalitaria. L'altra viene invece dai Simpson. Nel 22° episodio della decima stagione, dopo la fuga del corrotto Sindaco Quimby, alcuni intelligentoni prendono il potere a Springfield, grazie a una vecchia clausola dello Statuto della Città. Si tratta di Lisa, il nerd del negozio dei fumetti, il direttore Skinner, il dottor Hibbert e altri. All'inizio le misure dei secchioni riscuotono un certo successo (anche se sono abbastanza bizzarre, come l'eliminazione della luce verde al semaforo). Poi però cominciano i pasticci e la città rischia di finire nel caos (anche se è l'intervento di un altro genio, Stephen Hawking a sistemare le cose).

 

E' una morale da ricordare. Ma che forse noi, in questo momento, non possiamo permetterci. E, diciamocelo, dopo tutti questi anni di frustrazione, un branco di gente seria e un minimo preparata ci fa godere, anche mentre ci tartassa.

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giovedì, 24 11 2011

Per poterti sognare

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martedì, 22 11 2011

Dizionario della Crisi / 2

di


debito (s.m.)

 

Debito è parola antichissima, che probabilmente nasce assieme alle primissime regole del diritto. Prima di essere un sostantivo è un participio passato e vuol dire dovuto. Rimanda quindi a un impegno preso, che s'intende vincolante. Nella prima edizione del Vocabolario della Crusca (1612) è definito come "obbligazione di dare, o restituire altrui, che che si sia, e s’intende più comunemente di danari". In altre parole, come dice il Dizionario Universale Critico Enciclopedico di Francesco Alberti di Villanuova, del 1825, si tratta della "obbligazione di pagare altrui qualche somma di danaro".

 

Tuttavia la cosa non è così triviale come potrebbe sembrare. Il dovere che sta dietro al debito è il fondamento del diritto civile. Pacta sunt servanda, dice il motto latino. Cioè: i patti vanno rispettati. O, se si vuole, le promesse vanno mantenute. E se la promessa riguarda la restituzione di una somma presa in prestito, be', quei soldi vanno ripagati. Come sbotta Shylock, nel Mercante di Venezia (Atto III, Scena III): I’ll have my bond; speak not against my bond. Dove bond, qui, vuol dire proprio quello di cui stiamo parlando – visto che deriva dal verbo bind, cioè "legare, vincolare". Bond è legame, ma anche debito. (Un'altra parola della crisi, molto alla moda tra i più indebitati, è eurobond – cioè: che il debito lo paghi l'Europa). Per Noah Webster, autore del primo dizionario americano della lingua inglese, bond vuol dire "any thing that binds", qualsiasi cosa che vincola – cioè, aggiunge "obligation".

 

Il debito è quindi, per quanto fastidioso possa essere, ciò che lega gli uomini al rispetto degli impegni assunti. Volendo filosofeggiare, qualcuno potrebbe dire che il debito è il fondamento del vivere civile. Possiamo liberarci così, a cuor leggero, di un impegno così essenziale e basilare? Disconoscere i nostri doveri, come se non li avessimo mai assunti?

 

Il debito dello Stato è detto pubblico, perchè gira e rigira ricade su chi di quello Stato è cittadino. Per il Sabatini-Coletti, debito pubblico è "il complesso dei debiti contratti dallo Stato prendendo a prestito denaro da privati, laddove gli introiti fiscali non siano sufficienti, allo scopo di coprire il proprio fabbisogno finanziario". In America si parla di government bonds o Treasury bonds. E noi diciamo infatti "buoni" del Tesoro. Ma il buono (dal latino bonum, che secondo il Dizionario Etimologico Le Monnier deriva da una radice indoeuropea che vuol dire "utilità") è tale solo per chi i soldi li deve ricevere, non per chi li deve dare (per gli uni è buono, per gli altri è bond). Fu Alexander Hamilton, primo Ministro del Tesoro USA, a inventarsi il debito pubblico federale americano, dopo un lungo braccio di ferro con chi voleva che ogni stato badasse al suo, di debito (Jefferson in testa). Ma questa è un'altra storia (che ci riporta all'Eurobond che i Tedeschi non vogliono sentir nominare). Dopo 220 anni dall'approvazione del progetto di Hamilton, il debito pubblico americano ha aperto un account twitter. Un po' triste, in verità: twitta solo link per avere informazioni sul debito e segue solamente 4 altri twitterer: il Dipartimento del Tesoro, la Casa Bianca, un'altra agenzia del Tesoro e la Zecca Federale (che, nonostante quel che si potrebbe pensare, ha un account un po' più movimentato).

 

Il debito pubblico italiano è invece sempre stato fonte di guai. Già nel 1870, in una "lettera di un deputato a' suoi elettori" intitolata Politica finanziaria e riduzione del debito pubblico nel Regno d'Italia, un parlamentare lamentava:

 

Dappoichè si fu costituito il regno d'Italia , già molte esposizioni finanziarie abbiamo udito; tutte si rassomigliano: tutte espongono: situazioni del tesoro con gravi e progressivi disavanzi — bisogni urgenti di cassa — domande di straordinarie provvisioni di fondi, alienazioni, incameramenti, regìe, imprestiti sotto tutte le forme — domande d'imposte nuove — speranze nel progresso della ricchezza pubblica — ipotesi, calcoli, promesse d'un prossimo pareggio. Ebbene, che avvenne? Si divorarono i prodotti delle vecchie tasse e delle nuove che raddoppiarono le vecchie gravezze, e inoltre si divorò in ogni anno una provvisione straordinaria di oltre quattrocento milioni procacciata sempre con sciagurati accatti (quattro mila milioni in dieci anni), e finalmente or ci troviamo — pressochè in fin di risorse — con un disavanzo […] Dell'orribile dissesto quali sono le maledette, le infernali cagioni? L'Italia, amici miei, come altra volta dai barbari, è invasa da un'orda di selvaggi interessi: sono interessi di ambizioni immoderate, immense; interessi di cupidigie insaziabili, sfacciate; interessi di militarismo; interessi di partiti, di provincie, di regioni — di chi poco o nulla vorrebbe conferire alla cassa sociale, e prendervi la parte più opima; in una parola, sono gli interessi di un egoismo insensato, che conduce alla rovina universale o al disonore.

 

Insomma, a parte la punteggiatura bizzarra, i soliti vizi atavici. Che fare quindi? Uno slogan di qualche anno fa diceva: Cancella il debito. Ma nessuno pensava che dopo l'Uganda sarebbe toccato a noi. Oggi qualcuno lo pensa. E lo chiede. Come Padre Alex Zanotelli che firma un appello in cui si chiede la cancellazione del debito pubblico italiano. E il vincolo? il dovere? il legame? Chi è indignato dice: non è il nostro debito. E formalmente ci può anche stare, perchè lo Stato è lo Stato e i cittadini sono i cittadini (anche se lo Stato si indebita per spendere e questa spesa si chiama anche sanità, cassa integrazione, difesa, servizi sociali, sicurezza, insegnanti eccetera eccetera). Ma anche ammesso che il debito non sia nostro, lo è, ahimé, il credito. I dati dicono che poco più di metà dei buoni del tesoro sono in mano a Italiani. Il che vuol dire che cancellare il debito significa cancellare il credito – e chi di voi ha prestato soldi allo Stato non li riavrà indietro.

 

Perchè, scrive von Pufendorf ne Il diritto della natura e delle genti (nella traduzione di Giovanni B. Almici del 1757), con la nascita di una obbligazione da parte degli uni "gli altri acquistano un diritto, che avanti non avevano. Conciosiacché l’obbligazione va sempre insieme, e del pari con il diritto. Onde subito che una persona entra in qualche obbligazione, ad un’altra succede in istanti un qualche diritto, che vi risponde”. E, viceversa: morto il debito, muore il credito. Che è appunto, dice il Vocabolario della Crusca "quello, che s' ha ad aver da altrui, e per lo più moneta".

 

La preghiera che unisce tutti i cristiani recita: dimitte nobis debita nostra. Cioè: cancellaci il debito. Ma aggiunge: sicut et nos dimittimus debitoribus nostris. In breve: rinunciamo ai nostri crediti purché ci siano tolti i debiti. Siete pronti a farlo? Perchè, ricordiamoci, le promesse, poi, vanno mantenute.

giovedì, 17 11 2011

Dizionario della Crisi / 1

di


 

disinteresse (s.m.)

 

Appoggiare il Governo Monti? Festeggiarlo? Tollerarlo? Fargli opposizione? Le ragioni che muovono i nostri parlamentari sono complesse. A volte indecifrabili. L'idea che tutti vogliono offrire al popolo è quella della responsabilità, del sacrificio, del mettersi a disposizione del Paese, anche contro i propri interessi personali. Per il PDL si tratta di rinunciare al governo guidato dal proprio leader e ritirare la richiesta di elezioni. Per il PD si tratta di rinunciare a elezioni in cui avrebbe buone probabilità di vincere. Tuttavia, per entrambi i partiti maggiori, si tratta anche di non essere direttamente immischiati né fisicamente presenti in un governo che con ogni probabilità aumenterà le tasse, taglierà la spesa pubblica e varerà riforme dolorose.

 

La rinuncia all'interesse di parte – in nome del famigerato Interesse del Paese – nasconde anche una forte attenzione ai propri interessi. E questa ambiguità è tutta racchiusa in una parola che i secoli hanno sottilmente trasformato e svilito – con un'incredibile accelerazione negli ultimi anni.

 

In una scena di Bugsy di Barry Levinson (1991), il gangster interpretato da Warren Beatty corregge un tizio perchè confonde due parole americane: uninterested, che vuol dire non interessato; e disinterested, che vuol dire invece (secondo l'Oxford Advanced American Dictionary) not influenced by personal feelings, or by the chance of getting some advantage for yourself, cioè non mosso dall'interesse personale. L'errore del compare di Bugsy Siegel è divenuto con gli anni un significato accettato nella lingua inglese. Tant'è che il Garner's Modern American Usage ci dice che disinterest  nell'accezione di "mancanza di interesse" è ammesso, anche se è meno corretto e i più autorevoli scrittori ne condannano l'uso (che però è diffusissimo)

 

Sarà forse la sempre maggiore scarsità di gente disinteressata – a vantaggio dei sempre più numerosi non interessati – ma è la stessa cosa che è successa nella lingua italiana. La parola disinteresse compare infatti nel XVIII secolo. Infatti, la prima edizione del Vocabolario della Crusca (1612) non la riporta. Spunta, invece, nei Discorsi Accademici (1735) di Anton Maria Salvini, un erudito fiorentino che fu Arciconsolo dell'Accademia della Crusca. E di lì in poi viene diligentemente registrata dai linguisti nella sua accezione originaria e più vera. Infatti, nel Dizionario della Lingua Italiana di Nicolò Tommaseo e Bernardo Bellini (1869) troviamo che disinteresse vuol dire "disistima del proprio utile, noncuranza di guadagno". E nel Dizionario ortologico pratico di Lorenzo Nesi (1824) abbiamo la definizione "noncuranza del guadagno o della propria utilità". Il disinteresse ha quindi un significato nobilissimo: è la condizione dell'imparzialità, prerequisito della perfetta fairness – visto che chi agisce non può trarre nessun beneficio personale da quell'azione.

 

Il disinteresse è, se vogliamo, l'opposto di quella locuzione che ha invece imperversato per vent'anni: il conflitto di interessi. Nell'assenza di interesse (personale) in ciò che si fa c'è la migliore garanzia dell'agire giusto e del buon governo.

 

Ma la lingua è specchio dei tempi. Ci si è evidentemente accorti che il disinteresse è una rarità o un'ipocrisia. Negli ultimi mesi, mentre l'Italia si accinge al baratro finanziario e si invocano interventi giusti, nobili e non faziosi, il disinteresse dilaga tra i commentatori. Ma in un'accezione negativa. Sul Corriere della Sera, in un editoriale del 5 agosto 2011, Marcello Messori bacchetta il governo Berlusconi perché pone scarsa attenzione alla crescita del paese. Il titolista titola "Il disinteresse per la crescita". (Bugsy avrebbe reagito malissimo). Oggi, il buon Francesco Costa loda il Governo Monti a confronto di un PDL "completamente allo sbando e disinteressato alle sorti del Paese". Sul Futurista, il 20 ottobre 2011, si individua nel disinteresse la ragione per cui la Rai taglia un servizio sulle morti bianche. Mentre sul Mattino, il 18 gennaio 2011, Teresa Bartoli scrive che il silenzio di Napolitano sul caso Ruby non vuol dire che il Presidente non segua la faccenda con attenzione, perché "riserbo e distanza non significano… disinteresse". E già il 7 febbraio 2002, sul Foglio, si dice che "il disinteresse pubblico accompagna ormai stancamente la battaglia sul conflitto di interessi del premier": che non vuol dire che il popolo agisce in maniera disinteressata mentre Berlusconi fa il contrario, bensì che dell'agire per nulla disinteressato di Berlusconi non gliene frega ad anima viva. E infatti i moderni dizionari certificano l'avanzare del dark side del disinteresse. Il Devoto-Oli ha due definizioni: la prima, nobile e antica, è "attitudine o comportamento di chi non bada al tornaconto personale, in nome di principi etici, religiosi, umanitari"; la seconda è quella sempre più comune, cioè "colpevole noncuranza nei riguardi dei propri compiti o dei propri impegni". Il Sabatini-Coletti, infine, ammette il sorpasso: la prima definizione, spietata, è "assenza di interesse, di impegno, di cura".

 

L'apatia, dunque, predomina. Se interesse c'è, non può che essere personale e fazioso. Se qualcuno fa qualcosa, lo farà per un suo tornaconto. E se non ci sono tornaconti da guadagnare, meglio disinteressarsi, cioè appunto lasciar perdere. L'ottimismo di questi giorni lascia ben sperare anche sulle sorti di questa parola. Con l'aiuto di Monti (e di Bugsy Siegel) speriamo che prevalga il buon disinteresse – anche se il movente dovesse essere, per qualche mese, l'interesse dei poco disinteressati a non immischiarsi in decisioni difficili.
 

lunedì, 03 10 2011

Non è un problema di spazio

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mercoledì, 29 06 2011

Grand Theft Auto 3 e la Costituzione Americana

di

Video Software Dealers Association contro Schwarzenegger non è il titolo di un B-movie con l'attore che interpreta se stesso. Ma una sentenza di una Corte della California che dà ragione ai venditori di videogames contro una proposta di legge californiana che voleva proibire la vendita ai minori di videogiochi violenti. Per questa legge, i giochi proibiti sono quelli in cui

la gamma di opzioni disponibili per il giocatore include uccisioni, mutilazioni, smembramenti o violenza sessuale contro un'immagine di essere umano, qualora tali atti siano rappresentanti [in un modo] che secondo una persona ragionevole, che consideri il gioco nel suo complesso, attragga l'interesse deviato o morboso dei minori [che è] palesemente offensivo del prevalente sentire comune riguardo a ciò che è adatto ai minori

Per i venditori di videogiochi la legge è contraria al Primo Emendamento della Costituzione USA e in particolare a quella parte del Primo Emendamento (che sancisce anche la libertà religiosa, la libertà di associazione eccetera) che è nota come la Free Speech Clause, la clausola sulla libertà di parola. Cioé il principio per cui la legge non può in alcun modo limitare la libertà di espressione degli individui.
 

La Corte ha dato ragione ai venditori di videogiochi e la California ha quindi fatto ricorso alla Corte Suprema. E lunedì la Corte Suprema ha confermato la sentenza californiana, concludendo, con votazione di 7 a 2, che la restrizione al contenuto dei videogiochi è una restrizione alla libertà di espressione e non può essere ammessa se non in casi eccezionali. Per la Corte Suprema, il principio della libertà di espressione è sempre identico, a prescindere dal medium con cui ci si esprime:

La Free Speech Clause esiste principalmente per proteggere il discorso su questioni pubbliche, ma è stato riconociusto da molto tempo ormai che è difficile distinguere la politica dall'intrattenimento ed è pericoloso provarci. "Chiunque ha familiarità con esempi di propaganda tramite opere di finzione. Ciò che per un uomo è svago insegna la dottrina di un altro" (Winters contro New York). […] Come i libri, le opere teatrali e i film, che li hanno preceduti, i videogiochi comunicano idee – e persino messaggi sociali – attraverso espedienti letterari familiari (come personaggi, dialoghi, trama e musica) e attraverso caratteristiche specifiche del mezzo (come l'interazione tra il giocatore e il mondo virtuale). Ciò è sufficiente a riconoscere la protezione ai sensi del Primo Emendamento.

 

La Corte Suprema ha già sostenuto che "i giudizi estetici e morali sull'arte e sulla letteratura sono materia di scelta dell'individuo non di decreti del Governo, anche se quest'ultimo dovesse avere un mandato della maggioranza" (Stati Uniti contro Playboy Entertainment Group Inc.). E ha anche ribadito che il principio base in materia è quello per cui "il Governo non ha alcun potere per restringere l'espressione a causa del suo messaggio, delle sue idee, del suo oggetto o del suo contenuto" (Ashcroft contro American Civil Liberties Union).
 

Esistono delle eccezioni, ad esempio l'oscenità, l'istigazione a delinquere e le aggressioni verbali. Si tratta, però, di "categorie di discorso ben definite e strettamente limitate, la cui prevenzione e la cui punizione non hanno mai sollevato alcun problema costituzionale" (Chaplinsky contro New Hampshire). E, peraltro, la Corte ha un'idea ben chiara di cosa sia "oscenità":

l'eccezione di oscenità al Primo Emendamento non copre qualsiasi cosa che il legislatore ritiene scandaloso, ma solo la rappresentazione di "atti sessuali"

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giovedì, 16 06 2011

Qualcosa di vero sul buio

 

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martedì, 24 05 2011

oooooooooo Bafancùlo ooooooooo

Il promo della nuova trasmissione di Corrado Guzzanti, dal 9 Giugno su SkyUno.
(e che tutti chiaramente vedremo su YouTube)

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domenica, 20 03 2011

Non è più il tempo delle lenzuola stese

 

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giovedì, 03 02 2011

Rubik’s Mug

[si compra qui]

domenica, 30 01 2011

Quella cosa sul dito

sabato, 08 01 2011

Ma soprattutto per cercare se stessa

 

lunedì, 20 12 2010

Molte cose da vedere dalla finestra

domenica, 21 11 2010

Forse era autunno, nell’acqua ferma

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lunedì, 01 11 2010

Tra le cose rimaste a casa dei miei nonni

lunedì, 18 10 2010

Smettere le voglie

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martedì, 05 10 2010

Potrebbero bastare gli occhi

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martedì, 21 09 2010

Everything is a Remix

di

Everything is a Remix from Kirby Ferguson on Vimeo.

 

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martedì, 10 08 2010

Space Invaders couch

Space Invaders couch, di Igor Chak.

giovedì, 01 07 2010

Back to the Futurama

di

Come i più attenti di voi sapranno già, Futurama è tornato. Tra le serie animate più venerate dal lettore medio di questo blog, dopo essere stata cancellata stupidamente dalla Fox una manciata di anni or sono, la creatura più nerd e geniale di Matt Groening è stata resuscitata prima attraverso quattro lungometraggi (disponibili in DVD anche in Italia) e infine con una settima stagione nuova fiammante che va in onda sulle frequenze via cavo di Comedy Central a partire dalla scorsa settimana. E i primi due episodi (soprattutto Rebirth) sono stati, a mio parere, all'altezza delle aspettative. Qui qualche recensione, qui un'altra.

  

E già che siamo su Inkiostro, ecco un tizio matto matto che ha ricreato New New York interamente con il Lego, scovato via The Underwire.

  

Futurama Additions

  

(foto by Pepa Quin)

venerdì, 14 05 2010

Il punto omega del rock’n’roll

di

 

Tutto comincia, forse, all'incrocio tra East Houston e Essex St., al 217. Tra i posti di New York in cui ti capita di sentire buona musica, in questi ultimi anni, è il più piccolo e il più dimesso. Più buio e un po' più sporco della Bowery. Forse più prezioso. Forse ti trovi a New York per vacanza. Non puoi certo ripartire senza esplorare il groviglio di bar e scantinati scrostati che c'è lì intorno. L'odore è più o meno uguale dappertutto. Forse non sei in vacanza, ma ti ci hanno mandato per lavoro. Forse fai un lavoro del cazzo, ma in quel momento non è la questione prevalente. Forse quella geografia notturna, buia, sporca al punto giusto, l'hai trovata disegnata su una qualche guida commerciale, ma non vuoi ammetterlo. Ti sei convinto che New York è, tra le città che hai visto, l'unica che esiste davvero. Il vapore che esce dai tombini, ad esempio. Basta quello a sparigliare i sillogismi prudenti, cauti, noiosi, di chi non capisce di cosa stai parlando. Il vapore che esce dai tombini è fisicamente inconfutabile. Forse a qualcuno l'hai pure indicato col dito, ineluttabilmente. Forse hai usato questa parola, ineluttabile, per spiegare la differenza che c'è tra una città qualsiasi, una citta vera qualsiasi, e una città reale, una città che esiste davvero. Che poi è solo questa, ne sei convinto. Forse hai detto ineluttabile o forse hai solo indicato il vapore; o il colore di un'ombra qualsiasi.

 

Forse hai ricominciato a fumare, il che è un fallimento per il bon ton contemporaneo e un errore contro la tua placida autopreservazione. Forse la band di supporto ha finito e tu sei risalito su per la scaletta di ferro e ti sei concesso una sigaretta e stai cercando di mettere a fuoco la situazione. Forse hai la schiena poggiata al muro e c'è stata una pioggerella che lucida le traiettorie dei taxi sulla Houston. Forse vicino a te c'è la stessa ragazza che stava vicino al palco, ma in disparte, e ha l'evanescenza incurante di chi potrebbe o, con la stessa esatta precisione statistica, potrebbe non essere lì. Forse le chiedi qualcosa; o le accenni le tue idee sulla realtà di New York. Forse le dici persino la verità, cioè che lei è puramente e semplicemente trascendente. Le parli dell'esattezza statistica. Forse lei ti conferma la tua intuizione: potrebbe trovarsi lì ma potrebbe anche non trovarsi lì e sarebbe ugualmente naturale e ugualmente necessario o ineluttabile.

 

 

Il gruppetto che suona stasera, ne parlano tutti. Tutti quelli che leggi tu, almeno. Ma sai che presto ne parleranno anche altri. Hai la consapevolezza di assecondare il movimento storico della musica in tempo reale. L'evoluzione storica. Lo spirito del tempo. Hai la consapevolezza di essere un testimone oculare e anche di più. Contribuisci, in verità, a creare quello stesso movimento di cui vuoi essere testimone. La tua coscienza si nutre di quel movimento, e lo amplifica. Ne parli, ne scrivi, ti focalizzi sul momento storico. In verità, se ci pensi bene, non ne sei testimone, non lo vivi per davvero. Nessuno sano di mente vive il presente pensandone l'essenza storica, il dinamismo, vedendone il precedente e indovinandone il successore. Nessuno sano di mente vive il presente incastrandolo in una serie matematica ipotetica, un modello teorico, che ne estrae il senso relativo. In realtà, se ci pensi bene, sei uno dei tanti agenti che moltiplicano la coscienza di quel movimento. Non ti dimeni solo per il senso del dimenarsi. Non gusti il pezzo solo per il senso del pezzo. Senti e gusti altre cose. Il contesto, ad esempio. Senti il senso del contesto. Quello scantinato scrostato, quella gente. Mentre lanci un'esclamazione al chitarrista, senti anche questo: lo scantinato scrostato, la gente. Sai che questo aggiunge senso al suo assolo. Poi ti concentri sulla serie matematica. Sai che questo disco è uno snodo. Sarà uno snodo. E' un'ipotesi teorica. Vedi i dischi che lo precedono. Vedi quel disco del 1983. Raddrizzi il modello ripulendoti le labbra dalla schiuma leggera della birra. Senti anche questo, nel contesto, la birra. La marca della birra. L'accento di chi ha ti ha passato la bottiglietta. La sua t-shirt bianca. L'immaginario contemporaneo è saturo, lo sai. L'immaginario è più potente dell'esperienza elementare. Anzi, non c'è più nessuna esperienza elementare. Il vapore dal tombino, quello, esiste solo in quanto riproduzione di quello che sai già da bambino. La realtà è fantasmatica. Non riesci ad avere nessuna esperienza. Te ne sei accorto questa sera. Sapevi che sarebbe successo, sapevi della complessità che si accumulava. Ma non pensavi che avresti raggiunto il limite. Adesso senti il vincolo di quella topografia finita. Esaurita.

 

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