Non sono mai riuscito veramente a entrare nel disco d'esordio dei torinesi Drink to me, ma il singolo che presenta il nuovo disco S., in uscita il 9 marzo per Unhip Records (etichetta di cui peraltro quest'anno ricorre il decennale) mi ha letteralmente folgorato. Le cose vecchie mi ricordavano (un po' impropriamente, ne sono conscio) esplorazioni in stile Liars, mentre questa Henry Miller, aperta e gloriosa come una mattinata di sole sfocata sta dalle parti degli Animal Collective meno sperimentali o del pop elettronico un po' millenario e tribalistico degli Yeahsayer. Davvero un gran pezzo. E se tutto il disco è così…
Il post definitivo sul fenomeno Hipster Runoff (e, forse, sull'indie-blogging tutto) e una bella riflessione su successo nel web, identità online (personal brand, direbbe qualcuno) e music writing l'ha scritto Rob Trump su Splitsider:
Viral success on the internet is a strange phenomenon. Marketers spend hundreds of thousands of dollars trying to create something people will share with their friends, only to be beaten time and time again by accidents and genuine ineptitude. That’s part of the fun of the web — halfway decent singers wallow in obscurity while Rebecca Black gets 20 million hits, and your meticulously edited Tweet will never be as funny as a horse avatar poorly hawking ebooks. The content we share the most is stuff we can have conversations about, especially when the conversation goes something like, “This is weird and terrible and hilarious and I can’t look away and I think I love it.”
Most people who get that reaction weren’t looking for it and have no idea what to do with it. See, for example, Rebecca Black’s alienation of her fanbase by releasing something not hypnotically awful. But a handful of internet-savvy people have gone for that reaction on purpose. Of these, the most successful and maybe the best is Hipster Runoff, a website whose evolution after finding an audience is part success story, part cautionary tale for anyone looking for a foothold in web culture. [#]
Ma ancor di più è stato Carles stesso, a margine del Lana Del Rey Gate (di cui vi avevo raccontato gli inizi, qua), a fare una riflessione talmente amara da risultare non meno ironica delle sue solite prese per il culo sul ruolo suo e dei blog musicali (o che parlano di qualunque altro aspetto della cultura pop) in questo momento storico. Mentirei se non dicessi di condividere alcune delle cose che scrive.
In the post-LDR blogging era, I feel free to openly admit that I don’t care about honoring ‘bands that sound good’. The opinions that I have on bands are not actually my own, and my goal is not to preserve a relationship with readers or bands/artists based on editorial pandering. All I can do is ‘go down in flames’ with my sweet, Princess LanaBB. My demented online personality that motivates me to type these words in order to accumulate hits, empathy, praise, and controversy does not have much time left.
Wag the Blog.
Cultural criticism on the internet is dying because we finally realized that the voices behind blogs, twitter feeds, and authentic writing outlets are as fat, bored, uninspired, and jealous as the fat, bored, uninspired, and jealous voices that we thought we had escaped from. [#]
Questa strana e ispiratissima versione per tre voci, xilofono e violino di Heart-shaped box dei Nirvana registrata dagli Stepkids a margine della loro performance al party di BrooklynVegan al CMJ, in quella che sembra proprio la VIP room sopra la Public Assembly e la Music Hall of Williamsburg (in cui a un certo punto sono riuscito a imbucarmi anch'io), mi era proprio sfuggita. Ed è tanto più sorprendente considerato che il trio (di cui vi ho già parlato bene qua) normalmente si muove su sonorità abbastanza diverse e molto più psichedeliche. Anche se il loro disco a me dopo un po' stanca, continuo a pensare che qua le carte ci siano tutte.
Come ho già avuto occasione di dire, Somebody that I used to know di Gotye feat. Kymbra è senza dubbio alcuno uno dei migliori singoli pop dell'anno che si è appena concluso. Una melodia che ti si stampa in testa al primo ascolto, un arrangiamento essenziale ma praticamente perfetto e un equilibrio che è proprio solo delle grandi canzoni. Quando l'ho visto un paio di mesi fa a New York il pubblico aspettava solo questa, e quando sono partite le prime note è andato completamente in delirio, come raramente succede a un festival fatto quasi esclusivamente da nomi nuovi come il CMJ.
Un paio di giorni fa praticamente tutti i miei contatti nei social network che conoscono il pezzo (che dalle nostre parti, come in America, è stati quasi completamente ignorato dai grandi network) hanno postato un link alla cover fatta dai Walk off the earth, ma finchè non ci ho cliccato su non ho capito quanto fosse geniale. Cinque persone che suonano tutte una sola chitarra, per una versione eccezionale che potrebbe forse essere anche migliore dell'originale. Ascoltare per credere.
[L'originale invece, per chi se lo fosse perso, è qui]
Mi accodo a +1GMT e Delù nel chiedermi dove diavolo ero ad Aprile quando è uscito il Covers EP (la risposta è: qui; ce l'ho pure sul telefono ma mi pare di non averlo tipo mai ascoltato), in cui i Franz Ferdinand si fanno coverizzare da gente tipo Debbie Harry, Stephen Merritt, Peaches e dagli allora già disciolti LCD Soundsystem. Live alone non è certo uno dei pezzi migliori della band scozzese, ma in mano a Giacomino Murphy e soci diventa un serpentone leggermente fuori tono perfetto per una nottata molto tarda e un po' allucinata che non vuole finire o per un day after col mal di testa.
In tutti i casi, ora è uscito il video, ed è una delle cose più newyorkesi mai viste.
Sono i dischi più belli dell'anno? No.
Sono i dischi che ritengo musicalmente più importanti, criticamente più validi, culturalmente più rappresentativi? Macchè.
Sono i dischi che vorrei che ascoltaste? Non necessariamente.
Sono quelli che ho acoltato di più? Più o meno, ma non esattamente.
Sono i dischi che ricorderò quando ripenserò all'anno che sta per concludersi? Ecco, ci siamo vicini.
Sono i dischi che mi sono piaciuti di più, per motivi che non hanno sempre a che fare col disco stesso? Fuochino.
Sono i miei dischi dell'anno. Ah Beh.
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Yuck – Yuck (Fat Possum) |
Gli anni '90 non sono mai finiti davvero. Si sono nascosti bene, ogni tanto facevano capolino in qualche distorsione sonica o qualche chitarra storta ma poi si nascondevano sempre, e in parte lo fanno tuttora. E così il revival vero e proprio non arriva, ma arrivano dischi come questo esordio in cui quattro ventenni inglesi giocano a fare un disco rock alla maniera di quegli anni valvonauti. E lo fanno come in quegli anni, mettendo una canzone dietro l'altra senza pretese o velleità: quattro accordi, un bel riff, una voce un po' distorta e niente di più. Un disco piccolo piccolo che piace un sacco a quelli che quegli anni nonostante tutto non li hanno ancora dimenticati. Come me.
MP3 Yuck – The Wall MP3 Yuck – Rubber
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The Soft Moon – The Soft Moon (Captured Tracks) |
E' la colonna sonora ideale per un thirller metropolitano e post-apocalittico. Il disco che metti su di notte quando pensieri angosciosi non ti fanno dormire. Il suono di una tensione cupa e opprimente che non riesce a trovare pace. La wave nero pece che diventa dark industriale dei The Soft Moon, da San Francisco, è fatta di un basso ossessivo e martellante, una drum machine assillante, synth glaciali, chitarre soffocanti e una voce sepolta che potrebbe non essere umana. Un film dell'orrore senza morti, perchè morti forse lo siamo già.
MP3 The Soft Moon – Tiny Spiders
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Holy Ghost! – Holy Ghost! (DFA Records) |
Il migliore disco di pop elettronico e ballabile dell'anno di grazia 2011 è (ancora una volta) firmato DFA. Nell'anno in cui gli LCD Soundsystem hanno messo la parola fine alla loro parabola inarrivabile di ripescaggi sonori e filosofia, James Murphy dà la sua benedizione a questo duo di newyorkesi con il pallino degli anni '80 più sobri e spensierati, che si evolvono in parti uguali dalla italo-disco e dalla produzione perfetta dei New Order più rotondi per mettere a segno una bella infilata di pezzi killer. Privi della pressione che pare costringere tutti quelli che si cimentano con gli anni '80 più pop a ripescare i suoni peggiori di quegli anni, gli Holy Ghost! riescono dove quasi tutti quelli che li hanno preceduti hanno fallito. Non siamo ancora alla perfezione, ma le carte ci sono.
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dEUS – Keep you close (PIAS) |
Ho la netta e quasi certa sensazione che non vedrete questo disco in nessun'altra classifica di fine anno. Ignorati come al solito dagli americani, snobbati dall'intellighenzia nostrana e mai realmente amati dalla macchina del cool inglese, i dEUS continuano imperterriti per la loro strada e in punta di piedi tirano fuori un ottimo disco. Li abbiamo dati per morti almeno due volte (nella lunga pausa dopo Ideal Crash e dopo il penultimo discutibile Vantage Point), ma Tom Barman è il re dei sopravvissuti e dà il meglio di sè proprio quando non ti aspetti niente da lui. Certamente io non mi aspettavo un disco così solido e ben scritto, con arrangiamenti classici ma ambiziosi e almeno un paio di pezzi tra i migliori mai scritti dalla band di Anversa. E anche se in Italia hanno ancora un pubblico numeroso, è un peccato che non gli si riconosca la statura che hanno raggiunto. Io, nel mio piccolo, ci provo.
MP3 dEUS – Ghosts
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tUnE-yArDs – W H O K I L L (4AD Records) |
C'ero anch'io, tra quelli che la scorsa primavera, visto il consenso critico ottenuto dal secondo disco dal progetto di Merril Garbus, si chiedevano cosa ci fosse di speciale in questo strano pastiche di soul, indie e world music. Ambizioso e un po' impenetrabile W H O K I L L si svela pienamente solo dopo aver visto la baffuta soulsinger su un palco, in cui quasi da sola dà vita a queste canzoni armata di ukulele, rullante, voce e pedal-loop. E dopo la vedi tutta, la spaventosa quantità di sfumature e influenze che il disco impasta, e riconosci che c'è del genio nell'averlo composto in modo tanto matematico e modulare riuscendo al contempo a dotarlo di un'anima.
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J Mascis – Several shades of why (Sub Pop) |
In quasi trent'anni di onorata carriera Joseph Donald Mascis non ha più niente da dimostrare, e io ho sempre un debole particolare per gli artisti che nonostante la tentazione di sedersi sugli allori riescono ancora a fare quel passo in più. E Mascis qua di passi ne fa anche due, con una raccolta di pezzi acustici dolenti e ispirati e arrangiamenti nudi che mettono ancora più in evidenza la bellezza delle canzoni. Non c'è bisogno di aggiungere altro.
MP3 J Mascis – Several shades of why
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James Blake – James Blake (Atlas) |
Ma quanto suona bene questo disco? L'avete mai sentito in cuffia? L'avete mai messo a volume altissimo in uno stereo che non fosse comprato all'iperCoop? Avete mai fatto vibrare la casa coi suoi bassi? Avete mai sentito una voce così tridimensionale? Avete mai sentito dei silenzi così dannatamente vuoti?
MP3 James Blake – The Wilhelm's scream MP3 James Blake – Limit to your love
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Black Lips – Arabia Mountain (Vice Records) |
Non si capisce come sia possibile, ma dopo anni di attività i Bad Kids che vengono dal sud continuano a essere una delle band più entusiasmanti che ci siano là fuori. Teppisti cazzoni, casinisti e pericolosi che sanno come divertirsi: la fusione tra persona e personaggio è totale, e senza di essa un disco di garage-indie-punk-rock divertente come Arabia Mountain non potrebbe funzionare. E invece funziona, ed è stato la principale colonna sonora della mia Estate. Se vuoi qualcosa, va' fuori e prenditelo.
MP3 Black Lips – Go out and get it
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PJ Harvey – Let England shake (Island) |
Ho amato e amo i primi tre dischi di PJ Harvey (quattro, contando 4 track demos) di un amore che si può riservare a pochi album nella propria vita. Ho amato il loro essere estremi e privi di mezze misure, e il loro essere fatti contemporaneamente di una sincerità disarmante e autodistruttiva e di una parossistica messa in scena melodrammatica; così, quando sono arrivati i dischi dopo, pur nella loro diversità, sapevo che quella Polly era persa per sempre. Non mi aspettavo però che esaurito il ciclo delle maschere, la PJ Harvey superstite sarebbe stata capace di creare dischi di questa caratura. Esaurita l'analisi su di sè, lo sguardo si è portato lontano, si è cimentato con temi impossibili come la crudeltà della guerra e della morte, si è fatto alto, essenziale, privo di limiti, supportato da una tale sicurezza nei propri mezzi musicali che gli arrangiamenti sono folli ma non avrebbero potuto essere diversi.
MP3 PJ Harvey – In the dark places MP3 PJ Harvey – The words that maketh murder
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I Cani – Il sorprendente album d'esordio dei Cani (42 Records) |
Eggià, il mio disco dell'anno è il sorpendente album d'esordio dei Cani. Il disco d'esordio di una band italiana in cima alla mia classifica? Sono impazzito? Può essere. Ma quest'anno non ho incontrato un altro disco così tanto capace di imporsi alla mia attenzione, di essere amato e contemporaneamente odiato, ascoltato decine di volte, criticato per i suoi (tanti) difetti, perchè ha poche canzoni, perchè gli arrangiamenti sono tutti uguali, perchè piacerà troppo o troppo poco, perchè sono un po' troppo vecchio per rispecchiarmici al 100% e perchè è bellissimo ma non è definitivo.
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Ok, a ormai più di un mese dal suo svolgimento, ho capito che non scriverò mai un post completo ed esaustivo sulla CMJ Marathon. I 5 giorni del meta-festival newyorkese sono stati un'abbuffata musicale senza precedenti, una sequenza senza soluzione di continuità di showcase e live grandi e piccoli, con i migliori tastemaker della scena indipendente (etichette, magazine, siti web, blog, agenzie di promozione) a fare la gara a chi creava il party con la line-up più zeppa di nomi che ora sono ignoti e che domani (forse) diventeranno grandi. Il che rende difficilissimo orientarsi e scegliere il proprio percorso (e rende indubitabilmente irrealizzabile la speranza di riuscire a vedere tutti i nomi interessanti tra i più di mille presenti), ma porta a piccole grandi scoperte completamente casuali che sono il sale di eventi come questi.
Lascio a eventuali post futuri, se alcune delle promesse che ho notato saranno mantenute, racconti e trattazioni dettagliate. Per ora mi limito a poche parole e un sacco di link.
Bello!
Se dovessi dare solo due nomi avrei pochi dubbi: Grimes e Still Corners.
Adorabile, imbarazzatissima e talentuosa ragazza canadese, Grimes è circondata da un hype palpabile, ma quando sale sul palco da sola, e la vedi davanti a due synth, un Mac e un altro paio di macchine non le daresti davvero due lire. Quando comincia a suonare e cantare il suo bubblegum pop etereo e stratificato, però, sei fregato. Lei è bravissima e suona tutto, la sua musica assomiglia a un sacco di cose (da Madonna a Lykke Li a Robyn a Fever Ray) e l'alchimia di tutti gli elementi, non si sa bene perchè, è ammaliante e funziona da paura. L'anno prossimo, quando dovrebbe uscire il suo disco d'esordio, farà sfracelli. Io ve lo d'ho detto.
Completamente diverso è l'effetto che fanno live gli Still Corners, band inglese uscita su Sub Pop recensita ottimamente un po' ovunque. Il loro set cammina in punta di piedi, come è d'uopo per musica tanto cinematica e stereolabica, e grazie soprattutto alla vocalist Tessa Murray, che ha l'eleganza e la malinconia di certe ragazze d'Albione, il live cresce d'intensità e bellezza e conquista tutti.
Ma ci sono altri set che mi hanno colpito molto, curiosamente tutti femminili. Non sapevo cosa aspettarmi da un set da solista di Deradoorian, già voce nei Dirty Projectors, ma nel suo set da sola mi sono venuti in mente tanto Bjork quanto i The Knife: elettronica fredda e intellettuale non priva di squarci di grande bellezza. E hanno mantenuto le promesse i set cupi e intensissimi della spettrale Chelsea Wolfe (di cui vi ho parlato qua) e della waver gotica Zola Jesus. Artiste molto simili (benchè la prima si muova più su sonorità folk e noise mentre la seconda è più dalle parti del dark e dell'industrial), bravissime sul palco e supportate da ottime band. A occhio, nomi che resteranno. Tra l'altro, Zola Jesus suona al Covo il 7 Dicembre (dopodomani), io non me la perderei.
Uhm, interessante
Un gradino sotto il quintetto al femminile che mi è piaciuto di più, ci sono stati altri live che mi hanno lasciato un ottimo sapore in bocca. Impossibile non citare il divertentissimo set messo in piedi da The Stepkids; il loro principale selling point non è il (pur ottimo) filologicissimo sound funk/soul psichedelico anni '70 ma le straordinarie proiezioni che vengono sparate sulla band, e che aggiungono tutta un'altra dimensione trippy al concerto. Guardate qui e qui per avere un'idea. Sempre in area soul si muovono i giovanissimi Ava Luna, capitanati da un ragazzino appena uscito dall'adolescenza che canta come Prince e da un trio multietnico di coriste che probabilmente frequentano ancora la high school. Veramente impressionanti.
Venendo a suoni più indie, molto carucci sia The Beets, che si muovono tra lo-fi e garage e hanno inciso per la Captured Tracks, sia i canadesi Parlovr, che sono una specie di Wolf Parade ancora più acidi che mi hanno colpito all'istante. E impossibile non citare i Cavemen, che dal vivo sanno il fatto loro, finendo per fare abbastanza il botto al festival, e diventando in ambito indie uno dei nomi più caldi del momento.
Per finire merita una menzione Chad Valley, improbabile cicciobomba inglese che suona una chillwave sontuosa e ci spara sopra dei falsetti effettati che possono lasciarti secco. Superata l'ilarità iniziale, più convincente di tanti nomi più blasonati nel genere ipnagogico.
Ma anche no
Non c'è niente come vedere decine di gruppi al giorno per farti diventare super esigente e per farti sparare pesanti giudizi tranchant dopo due pezzi (il gioco funziona così).
Pollice verso quindi per l'imbarazzante pseudo new age dell'arpista elettronico Active Child (il cui set era molto atteso; la gente è PAZZA), per i droni sperimentali di Oneohtrix Point Never (girare due manopole non basta a fare un buon live) e per il derivativissimo dream pop dei Twin Sister (ci faceva cagare negli anni '80, e adesso questa roba è ancora più tediosa).
L'hip hop non è il mio genere (soprattutto quello che va di questi tempi), ma in un festival così grande è stato impossibile non incappare in almeno due set (il beat-master super cool Aaraabmuzik e il duo gangsta dei poveri Main Attraktionz) che, pur diversissimi, mi hanno ovviamente fatto cagare. E' importante avere dei punti saldi.
Un po' inutile dal vivo la chill-wave dei Com Truise (che oltre ad avere un nome bellissimo su disco non mi dispiacevani, in realtà), per nulla apprezzabile la svolta elettronica degli allora math-rocker The forms, e privo di mordente e una direzione precisa il progetto Bleached (che contiene un paio di Mika Miko).
Venendo a cose che su disco mi piacciono, è ancora povero il set solitario del nostro connazionale Porcelain Raft, il cui delicato e riverberato pop da cameretta è difficile da far rendere su un palco. E, per quanto faccia simpatia e tenerezza per la giovane età sua e del resto della band (tutti sono i 18 anni, credo), il crooner indie-pop ginger King Krule dal vivo non riesce a rendere le belle atmosfere del suo EP di esordio ed è poco sopra la sala prove, e non nel modo sghembo che talvolta ci piace.
Varie ed eventuali
Il CMJ, come si diceva sopra, è un festival fatto per scoprire cose nuove. Andarci per vedere e inseguire nomi grossi e già affermati è una missione non facile (non ce ne sono poi molti) oltre che piuttosto stupida. Ho fatto una sola eccezione, aiutato dalla scaletta di uno dei day parties di quello che indiscutibilmente è il re del festival (l'uber-blog Brooklyn Vegan), per J Mascis, già leader dei Dinosaur Jr e leggenda dell'indie americano, che a inizio anno ha pubblicato un disco acustico che finirà diritto nella mia top ten dell'anno. Il live set non ha riservato sorprese: diretto, spartano, semplicissimo e splendido.
Molto brava anche Eleanor Friedberger, che si è presa una pausa dai Fiery Furnaces, e la scorsa Estate ha inciso un bel disco solista di rock con pochi fronzoli, ottimamente reso al palco. Caruccio ma decisamente troppo educato il live di Emmy the Great, dove sono capitato per caso perchè ho sbagliato porta mentre cercavo di andare a vedere la star australiana Gotye (di cui ho visto solo due pezzi, di cui uno però era il piccolo capolavoro Somebody I used to know, quindi sono soddisfatto).
Poi metto qua un po' di altri nomi che mi hanno lasciato un'impressione genericamente positiva, ma non abbastanza da aver voglia di scrivere qualcosa oltre al loro nome: Young magic, DOM, Gauntlet Hair, Silver Swans, Widowspeak, Lord Huron, We Barbarians, Locksley, Prussia. Un elenco che serve più a me che a voi, mi sa.
Non so a chi sia venuta in mente la definizione qua sopra per descrivere la serata di domani, ma dopo la doverosa toccata di maroni di fronte a un ottimismo tanto spericolato, non posso che invitarvi a non mancare al Covo per l'imperdibile concerto della premiata ditta Enrico Brizzi e YuGuerra. Il sodalizio tra l'autore di Jack Frusciante è uscito dal gruppo e la band del rocker bolognese dura da un paio di anni e ha prodotto un paio di singoli e un intero disco (La vita quotidiana in Italia, uscito per Irma Records) che fonde roccioso rock emiliano e testi nati intorno ai due recenti libri La vita quotidiana a Bologna ai tempi di Vasco e La vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio (il primo dei quali è davvero molto bello).
Ho già visto Brizzi & YuGuerra dal vivo un anno e mezzo fa e mi sono piaciuti un sacco, e sono sicuro che domani non farà eccezione. Tra l'altro, verrà presentato l'ultimo singolo Silvio Summer, di cui verrò girato anche il video, e il me stesso fan sfegatato di 15 anni fa è già emozionato all'idea di poter comparire, anche se di sfuggita e nello sfondo, nel videoclip di uno dei suoi eroi degli anni '90.
A completare il cortocircuito, dopo il concerto sarò anche in consolle a mettere un po' di dischi. Potrebbe scapparmi fuori una Sunnyside of the street, siete avvisati.
E visto che in questo periodo sono un po' monotematico, una piccola appendice al post di qualche giorno fa. Non ricordo neanche come, ma nei mesi scorsi mi sono imbattuto in una delle migliaia cover di canzoni degli Smiths che ha colto la mia attenzione. Si tratta di Scott Weiland, che fu leader dei mai dimenticati grunge heroes Stone Temple Pilots (i primi 2 dischi, ai tempi, mi piacevano molto, e anche adesso se per radio passa una loro canzone me la canto di gusto) e poi ha fatto una brutta fine tra eroina, Velvet Revolver e una carriera solista di nessun rilievo, alle prese con Reel around the fountain, primo pezzo del primo disco degli Smiths nonchè una delle mie cinque canzoni preferite della band di Morrissey & Marr.
Si tratta di un pezzo per nulla facile, retto interamente da una linea di chitarra semplicissima ma perfetta e dall'interpretazione di Morrissey, che è forse l'unico che poter far sembrare delicata e persino romantica una canzone che in fin dei conti ha diverse sfumature parecchio inquietanti (ai tempi fu accusata di parlare di pedofilia). Weiland la approccia in modo inevitabilmente convenzionale, e al primo ascolto ero ovviamente abbastanza inorridito. Epperò, devo ammetterlo, mi sono poi sorpreso a metterla su diverse altre volte, e ho paura che adesso mi piaccia; soprattutto nei dettagli a un primo ascolto più orripilanti, come quella specie di tapping nel bridge di I dreamt about you last night, o l'arpeggio didascalico alla fine dei ritornelli. Mi sono completamente rincoglionito?
MP3 Scott Weiland – Reel around the fountain (The Smiths cover)
Lo scorso weekend ho passato un numero di ore decisamente esagerato a leggere il numero speciale di NME e Uncut interamente dedicato agli Smiths, in cui mi sono imbattuto per caso in libreria qualche giorno fa.
Cento pagine di articoli nuovi e (soprattutto) degli anni '80, interviste e recensioni dalle pagine di Melody Maker o NME di 25 anni fa, foto, recensioni, memorabilia e approfondimenti assortiti sulla band di Morrissey, Marr & company. Niente di lotananamente nuovo sotto il sole, ma si sa, a noi fan degli Smiths questo importa poco, vogliamo solo sentirci raccontare ancora e ancora la storia della band di Manchester, avere una nuova scusa per riascoltare da cima a fondo la loro discografia (cosa che ovviamente ho fatto), avere una nuova occasione per rileggere chi sono e cosa hanno fatto i protagonisti delle bellissime copertine del loro LP e singoli e avere ulteriori conferme che, a parte i poveri detrattori senza speranza, il mondo è unanime nel considerarli una delle band più influenti degli ultimi 30 (se non 50) anni.
Pechè quando non riusciamo più a dare l'attenzione che vorremmo alla bulimica e sterminata produzione musicale contemporanea, non resta che fermarsi, guardare indietro e tornare ai cari vecchi punti saldi. Che è una cosa che, sono sicuro, Morrissey stesso approverebbe.
Bonus:
We see lights – Hope you like The Smiths
Il loro primo singolo Poisoned Apple Pie mi piaceva un sacco e non ho mai capito perchè il loro nome, anche undeground, sia sempre rimasto poco noto. Ora gli Atari da Napoli sono tornati con un nuovo disco, e ancora una volta il singolo che lo presenta è davvero notevole (e il video forse ancora di più). If my brain was a program sta da qualche parte tra i Postal Service e le cose meno chitarrose dei Phoenix, e se tutto il disco è così, direi che perchè diventino noti è solo questione di tempo.
[Robin Peckold (Fleet Foxes) & Alela Diane – These Days (Nico Cover – live al Teatro Smeraldo, Milano, 20/11/2011). No, a Bologna non l'hanno fatta, maledetti]
Non so chi ci sia dietro a Big Band Theories (anche se ho l'impressione che sia qualcuno che potrei conoscere), ma l'idea è carina e la realizzazione brillante:
Per chi ha sempre sognato di diventare una rockstar. Ma soprattutto per chi, almeno una volta nella vita, ha pronunciato le parole “Se avessi un gruppo, lo chiamerei…”.
••• Bands you could play in, but you don’t. •••Manda il nome della tua band teorica a bigbandtheories@gmail.com I nomi più creativi saranno trasformati in loghi veri – o quanto meno, verosimili.
Erano già bellissimi i teaser:
Poi già i primi loghi realizzati sono veramente splendidi:
Followateli (FB, TW)! Scrivetegli!
Io quasi quasi gli scriveo e gli chiedo se mi fanno il logo degli Unbelievable Cazzons.
Come già sapete, sui Perturbazione in quasi 9 anni di blog ho scritto un numero notevolissimo di post.
Il perchè è abbastanza ovvio (sono una band eccezionale), come ho cercato per l'appunto di scrivere quasi tutte le volte:
I Perturbazione sono una band che non ha più nulla da dimostrare.
Qualitativamente ha già dimostrato tutto mille anni fa con il suo capolavoro In circolo, che fotografa un collettivo perfetto sotto praticamente tutti i punti di vista e contiene quella che è forse la più bella canzone italiana del decennio scorso (Agosto, ovviamente, che si contende con Estate di Bruno Martino il titolo di canzone estiva più triste di tutti i tempi, e che come Estate avrà sicuramente una vita molto lunga). Negli anni successivi, poi, i Perturbazione hanno dimostrato che in un paese di merda come il nostro una band che produce del pop così sopraffino non avrà mai il successo che merita: troppo priva di pose e pretese modaiole, troppo incapace di velleità e compromessi commerciali, troppo poco ggiovane per piacere agli adolescenti e troppo cazzona e volutamente sghemba per conquistare i seriosi amanti della musica d'autore. Una band quasi unica che probabilmente non ci meritiamo.[#]
La musica dei Perturbazione, da sempre, mi fa pensare a Joyce. Come cosa suona un po’ strana, me ne rendo conto; e certo se si prendono le divagazioni più cervellotiche dell’Ulisse o il periodare sperimentale diFinnegan’s Wake i punti di contatto, a ben vedere, sono pochi un po’ in tutti i sensi. C’è però un racconto in particolare che mi fa pensare a loro, ovvero Una piccola nube, dalla raccolta Dubliners. A parte le ovvie affinitità metereologiche e il concetto per eccellenza pop dell’attenzione altra alle piccole cose, ad accomunarli c’è la rara capacità di vedere e mostrare epifanie cariche di senso anche in cose che sembrano non aver più nulla da dire, che siano gli sguardi bassi di Little Chandler come gli anni sbagliati ma diversi nascosti dietro una ‘e’ aperta o chiusa. [#]
L'ho già scritto, e non sto a ripeterlo. Anche se le celebrazioni servono di solito proprio per cose del genere, ed oggi è una giornata da celebrare, perchè dieci anni fa usciva In circolo, il capolavoro della band piemontese, forse il più bel disco italiano degli anni zero e certamente il più importante. Per festeggiarlo degnamente, oggi esce in tutti i negozi In circolo – dieci anni dopo, ristampa in edizione deluxe con 2 cd che oltre ai brani originali include Fuori dal giro, raccolta di 24 brani inediti, lati B, versoni alternative ed esperimenti vari risalenti all'epoca. Tra Gennaio e Febbraio poi la band sarà in tour per dieci date speciali in cui suonerà la scaletta originale del disco. Una macchina del tempo, praticamente.
Il meglio della scena musicale indipendente italiana in un libro di racconti? E' un'idea improbabile, ma, se ci pensate bene, per niente peregrina. Ed è l'idea che hanno avuto Minimum Fax e la curatrice Chiara Baffa (una che quella scena la conosce bene), e che ha portato alla pubblicazione di Cosa volete sentire – Compilation di racconti di cantautori italiani, uscito qualche giorno fa in tutte le librerie. Dentro ci sono tutti o quasi i nomi che contano: Giuseppe Peveri (Dente), Vasco Brondi (Le luci della centrale elettrica), Dario Brunori (Brunori S.a.s.), Max Collini (Offlaga disco pax), Rossano Lo Mele (Perturbazione), Simone Lenzi (Virginiana Miller) e parecchi altri. I testi sono quasi tutti in qualche misura autobiografici, ed è molto curioso sentire alcuni dei propri cantanti e musicisti preferiti esprimersi con un registro diverso dal solito e raccontare un aneddoto o una storia con un respiro più ampio dei pochi minuti di una canzone. I risultati sono -come è inevitabile in questi casi- molto discontinui, ma forse i migliori sono i racconti di Darione Brunori e del beneamato Offlaga Disco Max, di cui potete leggere l'incipit in questo bell'articolo di Affari Italiani.
Come scrive nella presentazione Chiara Baffa:
La musica indipendente è tornata ad attingere all’immaginario nazionale e alla ricchezza espressiva della nostra lingua, per produrre canzoni evocative, forti, coraggiose. A farla da padrone sono, insomma, i testi. Ecco perché abbiamo chiesto a tredici nuovi autori di scrivere un racconto. Il risultato è una mappa non solo dello stato della musica italiana ma anche delle persone a cui questa è rivolta: gente che si ride addosso, che è capace di immaginarsi un lavoro e un grande amore, di vivere e non di sopravvivere, e di reinventare la realtà. Si spazia dai ricordi di gioventù alle difficoltà dell’autopromozione, dai primissimi concerti alle vicissitudini del tour, dalla solitudine delle stanze d’albergo ai miraggi della notorietà, rivisitando e modernizzando l’intero concetto di rockstar. Il tutto con un unico, saldo filo conduttore: la musica.
Andate e compratene.
Spettacolare infografica animata sull'evoluzione della musica da ballo occidentale dall'800 ad oggi. Un tantino americanocentrica, ma bella.
[grazie a Benty]
Quando era il cantante degli Arab Strap, Aidan Moffat ha scritto alcune delle mie canzoni preferite di quegli anni, e forse di tutti i tempi. Here we go, Love detective, The shy retirer, Don't ask me to dance sono le prime che mi vengono in mente, ma ogni volta che rimetto su un loro disco ne scopro qualcuna che con gli anni mi sono dimenticato, e non posso non scoprirmi a pensare a quanto siano stati (e forse siano tuttora) sottovalutati, e a quanto non ci sia più stata una band come loro, capace di mischiare nebbia alcolica, semplice (e fiera) depravazione e cupezza senza speranza.
Questa sera Aidan Moffat porterà il suo progetto solista insieme al polistrumentista Bill Wells tra le ormai famigliari mura della chiesa di Sant'Ambrogio a Villanova di Castenaso, appena fuori Bologna, per un'altra delle imperdibili session organizzate dal Covo. L'incontro/scontro tra un luogo sacro e un personaggio tanto profano è praticamente imperdibile. Ci vediamo là.
MP3 Aidan Moffat & Bill Wells – Cruel Summer (Bananarama cover)
Per descrivere adeguatamente le mie due serate da DJ a New York e quello che hanno significato per me dovrei essere uno scrittore assai più bravo di quello che sono. Essere ospite di Matte alla consolle di un locale figo come Pianos è stato il proverbiale sogno che diventa realtà,e non ci sono molte altre parole che possono esprimere il grado di esaltazione che un evento simile ha generato. Cioè: ho messo i dischi a New York. As lame as it may sound, there's nothing more to add.
Nelle varie ore che ho avuto a disposizione ho messo un po' di tutto, dall'indiepop ai classici, dalle chitarre all'elettronica (per lo più roba europea, per marcare il territorio; anche se a un certo punto ho passato un po' di cose americane e, per rispondere idealmente a FdL che mi ha preceduto alla stessa consolle il mese prima, neanch'io ho messo alcun pezzo di Mago Panzone Murphy, anche se ho messo Do it again degli Holy Ghost in cui il nostro è il titolare della voce che dice appunto «Do it again», quindi forse non vale).
Nei due set sono riuscito a infilare anche alcuni pezzi di artisti italiani, che non hanno sfigurato e in due casi (Banjo or freakout remixato da Allez Allez, già suo socio nei Walls e Quakers & Mormons) hanno portato anche a richieste di informazioni da alcuni astanti. Importare hip hop italico (di più: bolognese) nella terra che l'hip hop l'ha inventato è stata una piccola soddisfazione. Qua sotto -se non ricordo male- tutti i pezzi di artisti italiani che ho messo: me n'ero portati diversi altri che però non hanno trovato posto nel set. La prossima volta, magari.
MP3 The Jacqueries – I try (Macy Gray cover)
MP3 Banjo or freakout – Mr. No (Allez allez remix)
MP3 Quakers & Mormons – Speechless sentence
Sono molto fiero della foto con lo skyline di New York qua sopra. Sembra una cartolina disegnata, lo so. E invece è una normalissima foto scattata poco prima del tramonto, e il suo effetto stropicciato viene dal mix della pixelatura dello zoom del mio iPhone, dal filtro 1977 che gli ho applicato con Instagram, e dal vetro un po' sporco della finestra del luogo in cui l'ho scattata. Che è la lounge del settimo piano del Thompson LES Hotel di Allen Street, dove mi trovavo per assistere agli showcase di PureVolume durante la CMJ Marathon (di cui appena riesco vi racconterò). In quel momento mi ero un po' distratto perchè sul palco non c'era molto da guardare: c'era un tavolo con 4 persone sedute dietro a 4 computer portatili (Nancy Whang degli LCD Soundsystem, Amrit Singh dell'uber-blog musicale Stereogum, Ayad Al Adhamy dei Passion Pit e Naveen Selvadurai, fondatore di Foursquare) che partecipavano al contest di Turntable.fm, la piattaforma in cui chiunque può creare una chatroom online e creare una playlist condivisa (una versione più figa ed evoluta di Outloud.fm, che vi avevo già segnalato). Mentre i quattro indie-VIP si sfidavano a colpi di pezzi per lo più electro ed R'n'B (la playlist che è uscita fuori non mi è sembrata un granchè, devo dire), non ho potuto non notare la luce spettacolare nella vetrata dietro di loro, e sono riuscito a scattare la foto qua sopra.
Poi il sole è tramontato, e anche se lo sklyne dietro al palco era veramente mozzafiato, le foto che ho scattato dopo non sono un granchè. Il contest è finito (ha vinto Amrit: il blogger batte i musicisti), e sul palco sono salite le Dum Dum Girls che mi hanno veramente sorpreso con un eccellente set acustico, immagino simile a quello che la cantante Dee Dee porterà sui palchi italiani insieme al suo fidanzato Brandon Welchez dei Crocodiles (il 18 Novembre al Plastic di Milano, il 19 al Covo di Bologna, il 20 al Circolo degli Artisti di Roma, il 23 al B-Side di Rende (Cosenza), il 24 al Cellar Theory di Napoli, il 25 al Tabasco di Firenze,il 26 allo Spazio 211 di Torino, e il 27 al Factory di Padova).
Il set è finito, e io sono uscito per perdermi nel Lower East Side. Just an ordinary night in New York City.
Dum Dum Girls – Bang Bang, I'm a Burnout (live acoustic)
Daniele Carretti è uno che non sta mai fermo. Da sempre il chitarrista e anima shoegaze degli Offlaga Disco Pax si tiene molto impegnato tra un tour e l'altro della band neosensibilista reggiana, ad esempio con il cupo e ispirato progetto Magpie, o con la piccola etichetta Sussidiaria. Ma da qualche tempo, non pago di queste attività, Carretti ha iniziato a suonare canzoni anche sotto lo pseudonimo di Felpa.
Il progetto è ancora avvolto dal più stretto riserbo, e verrà svelato al mondo questo venerdì al Locomotiv di Bologna in apertura al concerto di Paolo Benvegnù. Ma a giudicare dal primo e unico pezzo diffuso (una bella cover del classico minore degli Scisma, nonchè title-track dell'ultimo disco Armstrong), siamo davanti a qualcosa di molto promettente.
Breaking Bad è probabilmente la migliore serie tv di questi anni. Potreste pensare che io lo dica sull'onda dell'impatto emotivo dello spettacolare season finale che è andato in onda tre sere fa su AMC, ma non è così. Dall'inizio della terza stagione in poi ogni puntata è una piccola meraviglia di scrittura, di regia e di recitazione, tenuta in piedi da una trama sorprendente, da dialoghi perfetti e da attori bravissimi (per la sua interpretazione del protagonista Walter White, Bryan Cranston ha vinto 3 Emmy di fila come miglior attore di una serie drammatica). Insieme a The Wire, a Studio 60 e a Mad Men è probabilmente la serie tv che mi sia piaciuta di più di tutti i tempi, e mi meraviglio sempre a scoprire quanto poco sia nota dalle nostre parti.
Mentre voi ve la procurate e mentre io medito se rivedermela tutta dalla prima puntata, vi evito ogni spoiler ma vi lascio con i due azzeccatissimi pezzi presenti come soundtrack dell'ultima puntata. Sarà una lunghissima attesa fino all'ultima stagione dell'anno prossimo, e non ho veramente idea di cosa diavolo il creatore Vince Gilligan tirerà fuori dal cappello. Ma sono matematicamente sicuro che mi stupirà.