[di quel solito geniaccio di Grant Snider]
Questa è una delle poche volte in cui mi rammarico di non avere un kindle: da giorni leggo un po' ovunque sul web americano ottimi pareri su Gods without men, ultimo libro di Hari Kunzru, e ora ci si mette anche Douglas Coupland sul New York Times, a dirmi che devo assolutamente leggerlo il prima possibile (e su amazon.it non c'è). E nel farlo, ci infila in mezzo una delle sue riflessioni couplandiane:
One thing that struck me about the 9/11 footage shown during last year’s anniversary was that in 2001, the people on New York City’s sidewalks had no smartphones with which to record the events of the day. History may well look back on 9/11 as the world’s last underdocumented mega-event. But aside from the absence of phone cameras, the people and streets of September 2001 looked pretty much identical to those of September 2011: the clothes, the hair, the cars. I mention this because it has been only in the past decade that we appear to have entered an aura-free universe in which all eras coexist at once — a state of possibly permanent atemporality given to us courtesy of the Internet. No particular era now dominates. We live in a post-era era without forms of its own powerful enough to brand the times. The zeitgeist of 2012 is that we have a lot of zeit but not much geist. I can’t believe I just wrote that last sentence, but it’s true; there is something psychically sparse about the present era, and artists of all stripes are responding with fresh strategies. [#]
Nonostante abbia ordinato più di un centinaio di euro di libri appena a fine Agosto per approfittare degli ultimi scampoli di super-sconto prima che entrasse in vigore la legge Levi, in questo periodo in libreria stanno uscendo talmente tanti titoli interessanti che c'è da spendere di nuovo praticamente la stessa cifra.
Degli acquisti più recenti ho letto ancora solo Cosa volete sentire, e ci metterò mesi a smaltire il nuovo A. M. Homes (che se sbaglia anche questo si gioca tutto il credito accumulato con Questo libro ti salverà la vita), il nuovo Coe (che il credito per i romanzi se l'è giocato tutto; ma questa è una biografia, e la sua vecchia biografia di Bogart era molto carina) e il Foster Wallace postumo (per cui mi sa che aspetterò l'Estate, per controbilanciare la tristezza).
Ho però un altro paio di titoli (che da noi sono appena usciti ma che ho già letto in inglese nei mesi scorsi) da consigliarvi senza se e senza ma.
Craig Thompson – HABIBI (Rizzoli Lizard)
Mi sono avvicinato alla nuova, mastodontica, graphic novel di Craig Thompson con tantissima paura. Sono passati 8 anni da Blankets, e non sarebbe la prima volta che un autore, dopo aver creato quasi casualmente un capolavoro universalmente riconosciuto, si blocca e non riesce più a produrre niente di alto livello. Thompson si è fatto attendere e ci ha fatto sudare, ma il pericolo è scampato: Habibi è bellissimo. E' seriamente uno dei fumetti graficamente più belli che io abbia mai visto (aiutano il formato gigante e la copertina deluxe), dotato di una fantasmagoria visionaria e molto evocativa, di un modo di narrare complesso ma scorrevole e molto moderno, e di una storia che uccide.
Costa 35,00 euro, ma li vale tutti.
Compra Habibi (Amazon.it / IBS)
Jennifer Egan – Il tempo è un bastardo (Minimum Fax)
Ignorate il titolo, vi prego. Di solito dalle parti di Minimum fax fanno le cose per bene, ed è vero che A visit from the goon squad (una cosa tipo «Una visita dalla squadra degli sgherri») non vuol dire quasi niente neanche in originale; però scegliere la strada frase da bacio perugina, per di più svelando la metafora del titolo che nel libro è chiarita parecchio avanti nel testo, è veramente un crimine. Cercate si soprassedere, però, perchè il libro lo merita. Il romanzo più recente di Jennifer Egan ha vinto tutti i premi che poteva vincere (su tutti il Pulitzer e il Booker prize) ed è uno splendido patchwork di storie e voci intrecciate intorno ad alcuni personaggi, che sperimenta (con parsimonia) forme diverse, e risulta naturalissimo sia quando il punto di vista è quello di una manager discografico di una certa età, sia quando è quello di una publicist troppo poco priva di scrupoli, sia quando a parlare è un'adolescente californiana che suona in un gruppo punk, o anche 30 anni dopo, un'altra adolescente che scrive il suo diario in forma di presentazioni di Powerpoint (sic). Una specie di affresco in stile Franzen sminuzzato come lo farebbe un Foster Wallace meno cervellotico (ma femmina), pieno di ottimi passaggi e dotato di una voce autentica e ispirata. Pare che la HBO ne farà una serie tv, e ci sta. Consigliatissimo.
Il meglio della scena musicale indipendente italiana in un libro di racconti? E' un'idea improbabile, ma, se ci pensate bene, per niente peregrina. Ed è l'idea che hanno avuto Minimum Fax e la curatrice Chiara Baffa (una che quella scena la conosce bene), e che ha portato alla pubblicazione di Cosa volete sentire – Compilation di racconti di cantautori italiani, uscito qualche giorno fa in tutte le librerie. Dentro ci sono tutti o quasi i nomi che contano: Giuseppe Peveri (Dente), Vasco Brondi (Le luci della centrale elettrica), Dario Brunori (Brunori S.a.s.), Max Collini (Offlaga disco pax), Rossano Lo Mele (Perturbazione), Simone Lenzi (Virginiana Miller) e parecchi altri. I testi sono quasi tutti in qualche misura autobiografici, ed è molto curioso sentire alcuni dei propri cantanti e musicisti preferiti esprimersi con un registro diverso dal solito e raccontare un aneddoto o una storia con un respiro più ampio dei pochi minuti di una canzone. I risultati sono -come è inevitabile in questi casi- molto discontinui, ma forse i migliori sono i racconti di Darione Brunori e del beneamato Offlaga Disco Max, di cui potete leggere l'incipit in questo bell'articolo di Affari Italiani.
Come scrive nella presentazione Chiara Baffa:
La musica indipendente è tornata ad attingere all’immaginario nazionale e alla ricchezza espressiva della nostra lingua, per produrre canzoni evocative, forti, coraggiose. A farla da padrone sono, insomma, i testi. Ecco perché abbiamo chiesto a tredici nuovi autori di scrivere un racconto. Il risultato è una mappa non solo dello stato della musica italiana ma anche delle persone a cui questa è rivolta: gente che si ride addosso, che è capace di immaginarsi un lavoro e un grande amore, di vivere e non di sopravvivere, e di reinventare la realtà. Si spazia dai ricordi di gioventù alle difficoltà dell’autopromozione, dai primissimi concerti alle vicissitudini del tour, dalla solitudine delle stanze d’albergo ai miraggi della notorietà, rivisitando e modernizzando l’intero concetto di rockstar. Il tutto con un unico, saldo filo conduttore: la musica.
Andate e compratene.
In rete è uno sport diffuso notare le traduzioni inutili, sbagliate o ridicole dei titoli dei film. Andrea Pomini guarda anche tra gli scaffali di una libreria:
Se oggi entriamo in più o meno qualunque libreria italiana troviamo – tutti fra le novità – i seguenti titoli:L'infiltrato, di Antonio Salas, Newton Compton (titolo originale: El Palestino);
Il superstite, di Wulf Dorn, Corbaccio (titolo originale: Kalte Stille, "Silenzio freddo");
Il professore, di John Katzenbach, Fazi (titolo originale: What Comes Next );
L'addestratore, di Jeffery Deaver, Rizzoli (titolo originale: Edge);
Il negoziatore, di James Patterson e Michael Ledwidge, Longanesi (titolo originale: Step on a Crack);
L'osservatore, di Franck Thilliez, Nord (titolo originale: Le syndrome E);
Il paziente, di Nicci French, Sperling & Kupfer (titolo originale: Blue Monday);
Il carnefice, di Francesca Bertuzzi, Newton Compton (ovvero, il primo esempio di titolo italiano originale adeguato al trend).Ma non è tutto, tenetevi forte.
Il 23 agosto esce Il persecutore, di Rory Clements, Piemme (titolo originale: Revenger) e l'8 settembre esce Il persecutore, di Ian Rankin, Longanesi (titolo originale: The Complaints).Il 22 settembre esce Il burattinaio, di Torsten Pettersson, Newton Compton (titolo originale: Göm mig i ditt hjärta, "Nascondimi nel tuo cuore") e il 27 esce settembre Il burattinaio, di Francesco Barbi, Dalai.E qui veramente avremmo pagato per vedere le facce nelle rispettive redazioni, quando hanno scoperto che la stessa idea geniale l'avevano avuta anche degli altri. [#]
L'uscita era stata annunciata per più di un anno fa poi però non se n'era saputo più niente, e il dubbio che il romanzo d'esordio di Francesco Bianconi, leader, autore e vocalist dei Baustelle, non sarebbe mai uscito era abbastanza lecito. Come un fulmine a ciel sereno, però, arriva ora l'annuncio che il libro uscirà tra una decina di giorni (per Mondadori Strade Blu), si intitolerà Il regno animale e, a giudicare dal riassunto, non sarà una storia per nulla autobiografica. E, soprattutto, per nulla Baustelliana.
Alberto è arrivato a Milano dalla provincia toscana, attirato da un lavoro precario. Vorrebbe fare lo scrittore, o almeno il giornalista. E ha dei problemi di erezione. Susi è bella e magra,vorrebbe volare via da quel puzzo di piscio, hashish, benzina, cocaina bruciata e Chanel numero 5 e i milioni di essenze del piano terra della Rinascente. Nel frattempo si taglia il corpo con una lametta. Sandro da bambino pescava le rane con Alberto. Lui è rimasto in provincia, è molto ingrassato, è in cassa integrazione e sta ubriaco di Fernet al bancone del bar. Francesco, cantante di una band indie di successo, è l'unica vittima di un attentato in una festa alla moda nella quale si sentiva pure un po' a disagio. Le loro vite sprecate si toccano in una Milano dalle mille sfaccettature in un mondo in cui sembra perduta ogni speranza di purezza. Lirico, spietato, immaginifico e sfacciatamente contemporaneo.
Tiriamo la pagliuzza: chi è che si sacrifica e lo legge per la comunità?
(via)
Doveroso, ma molto bello e assolutamente ipnotico (anche se, dicono, letale): come si fa l'inchiostro?
[grazie a Pier Mauro]
Non dirò che David Foster Wallace era un genio, non dirò che scriveva cose perfette (il contrario!), non dirò che il giorno che abbiamo saputo della sua morte eravamo tutti tristissimi e attoniti e ci venivano paragoni solo con Kurt Cobain (solo che allora avevamo 15 anni e moriva un'icona e ora ne abbiamo trenta ed è morto una specie di amico, un amico intelligentissimo e un po' incomprensibile che a volte ci stecchiva con dei lampi di verità come ormai non riesce più a fare quasi nessuno, perché siamo diventati molto presuntuosi ma non fino al punto di mentire a noi stessi), mentre in quella mattina di Settembre ci scambiavamo SMS e non ci potevamo credere, e continuavamo a dire che la stessa cosa l'avevamo provata solo quando avevamo saputo di Kurt Cobain, nel mentre pentendoci per il confronto perché non è proprio una cosa che gli rende giustizia, a uno dei migliori scrittori della sua generazione appena morto, ed anzi, se esiste una giustizia in qualche modo assoluta tra un po' di anni ci ricorderemo del contrario, e quando penseremo alla morte di Kurt faremo paragoni con quella di David, che è arrivata più tardi e ci ha colpito più forte perché solo a un certo punto della tua vita puoi capire davvero la gravità del privarsene, e quello che può portartici, e la cattiveria nel non pensare a tuo moglie che ti troverà lì appeso, agli amici, alle legioni di fan in tutto il mondo che aspettavano un nuovo libro, ai coccodrilli, e alle aragoste che ora rimarranno senza compagnia; mentre sono passati due anni e non abbiamo ancora letto tutto quelli che hai pubblicato, cosa aspettiamo? Forse non ci vogliamo pensare? Forse l'idea che rimanga una raccolta di racconti qua e una di saggi di là ci illude che ci sei ancora, là fuori? Non è che ci stiamo a pensare tutto il tempo, sia chiaro; e siamo in grado di prendere in mano un tuo libro e di consigliarlo a un amico senza necessariamente cadere in lacrime, ci mancherebbe (non siamo come te! noi siamo forti! noi ce la facciamo!); però in quei momenti lo sappiamo, vorremmo non saperlo e vivere nell'ignoranza che abbiamo sempre riservato ad altri autori e ad altri personaggi, magari bravissimi, di cui non ci frega niente, mentre tu, che pure lo sapevi benissimo, te ne sei fregato. Vorremmo essere arrabbiati, ma non ci riusciamo. Siamo solo tristi.
Anche se il secondo anniversario della morte di David Foster Wallace cade la prossima domenica, domani sera qua a Bologna un paio di amici hanno organizzato una serata per ricordarlo. Sono entrambi autori di questo blog (anche se, come tutti gli altri, non scrivono quasi mai), e insieme a Radio Città Fujiko e la Libreria.Coop Ambasciatori hanno messo in piedi una serata per parlarne; una specie di seduta di terapia collettiva postmoderna per elaborare il lutto, così me la immagino. Alle 21 di mercoledì 8 Settembre, alla Libreria Ambasciatori di Via degli Orefici 19 ci saranno Marco Cassini e Martina Testa di Minimum Fax, ci sarà la straordinaria voce di Marina Pitta a leggere come solo lei sa fare alcuni brani dai suoi libri, ci saranno Pirex e Francesca e ci saremo tutti noi. Ché poi il giorno giusto faranno anche una cosa a Roma, più in grande, perchè loro certe cose le sanno fare bene e sono tra i pochi che possono farle. Ma noi lo ricordiamo qua, tra di noi, come si fa con gli amici che
Una puntata dedicata a New York. In diretta digitale il brillante inviato sul posto è il titolare di questo blog. Mentre è assente/distratto posso svelarvi senza pudore che non è mai stato alla Statua della Libertà né da Abercrombie and Fitch sulla 5th. Andrà a sentire The National e Massive Attack. Farà l'abituale capatina al Moma, al Guggenheim e al nuovo NY High Line's Park. Non comprerà tecnologia all'Apple Store. Anche se nega solitamente fa il brunch con Giovanna Botteri del tg3, Woody Allen e Sarah Jessica Parker (non necessariamente in quest'ordine).
Ma a parte i pettegolezzi questa settimana a Impronte digitali (sempre radiocitta'fujiko, ovvio), il pezzo forte è l'intervista a Lorenzo Grandi, redattore di www.nuok.it, sito di informazione creativa e turistica, guida e molto altro realizzato da italiani che vivono o gravitano attorno alla Grande Mela.
MP3 Impronte digitali con Lorenzo Grandi (www.nuok.it)
Oltre l'audio un frasario.
Presentazione. "Nuok nasce per esaltare creatività ed esperienza di chi conosce e vive già NY. Da un punto di vista italiano".
Guida 2.0. "Il 2.0 è uno strumento figlio del nomadismo Italia-Usa dei redattori. Nuok parla di cultura, arte, musica … e di una lista di temi e notizie in continuo aggiornamento grazie anche a segnalazioni e richieste che arrivano da lettori".
Non solo per turisti. "Il web permette di superare stile delle vecchie guide turistiche. Nuok è un raccoglitore di visioni della città, che partono dall'esperienza dei singoli redattori o di personaggi noti che per il sito vengono intervistati: Bisio, Pezzi, Iene".
Business Plan. "Progetto è in divenire, siamo partiti ad inizio anno con un'idea forte. La strategia di visibilità è basata soprattutto sui social media. Il nostro target è una generazione di italiani che cerca di capire se rimanere nel suo paese o trasferirsi".
I love NY/1. "Gara di 30 mangiatori di Hot Dog a Coney Island, il 4 luglio per l'Indipendence Day".
I love NY/2. "Williamsburg. A Brooklyn, è un po' il luogo degli hipster di NY, quindi nel bene e nel male sai che qualcosa e qualcuno di interessante lo inconterai sempre".
E' una bella metafora, quella usata da Paolo Cognetti per intitolare il suo libro dedicato a New York City pubblicato nella sempre ottima Contromano di Laterza. New York è una finestra senza tende è un viaggio per New York (o meglio per la sua parte che si raccoglie dalle parti dell'East River, tanto a Manhattan come a Brooklyn) attraverso le esperienze del suo autore e le storie dei tantissimi scrittori che in qualche secolo hanno raccontato e vissuto la città. Da Melville ai poeti beat, da Salinger alla new wave Brooklyniana (Lethem, Moody & co): la letteratura aiuta a fuggire molti dei soliti luoghi comuni e a raccontare una città «la cui materia sono il granito e l'immaginazione».
Non ho letto altro di Cognetti (ha scritto due raccolte di racconti edite da Minimum Fax), ma ho apprezzato non poco questo viaggio letterario attraverso alcuni dei miei quartieri preferiti di New York, che riesce a dosare con la giusta misura l'inevitabile entusiasmo per la Grande Mela, i riferimenti letterari, un autobiografismo mai gratuito (in cui è facile rispecchiarsi) e un po' di dritte comode per il viaggiatore anche scafato.
In allegato al libro c'è poi il DVD de Il lato sbagliato del ponte, documentario diretto dallo stesso Cognetti insieme a Giorgio Carella che raccoglie interviste e reading di 4 scrittori (e che scrittori: Rick Moody, Jonathan Lethem, la sua ex moglie Shelley Jackson e Colson Whitehead) che mostrano e raccontano la loro Brooklyn, un posto che contemporaneamente soffre e si vanta per il fatto di NON essere Manhattan, che cela buona parte di sè alla vista e ha un'identità sfuggente ma molto peculiare. Consigliatissimo anche questo.
[la segnalazione, ovviamente, cade a fagiolo in occasione del mio viaggio a NYC. Ora che leggete queste parole io sono già partito, ci si risente tra qualche giorno]
Il concerto/reading di Enrico Brizzi insieme a Yu Guerra alla sua band di sabato scorso è stato assolutamente superiore alle aspettative. Mi aspettavo che Dio salvi Bologna fosse poco più che un divertissment musical-letterario con una locandina indovinata basato sulla tragicomica situazione politica della città, invece sullo stile delle performance on stage di Brizzi (che negli anni ha portato in giro spettacoli con altre band, come i Frida X o i Numero 6) mi sono trovato di fronte a uno spettacolo assolutamente ben fatto.
Base di rock solido e roccioso, un performer in grande forma, ottimi testi basati sul bellissimo La vita quotidiana a Bologna ai tempi di Vasco (se vivete o avete vissuto a Bologna e non l'avete letto fatelo ADESSO), l'eccezionale featuring di Steno dei Nabat sull'anthem Oi Laida Bologna, per un omaggio ad una città che ha visto momenti migliori ma che si può ancora rialzare. Si sa che da queste parti ci piace cantarcele e suonarcele quindi non sono sicuro che una cosa del genere funzionerebbe altrove; io, però, ho avuto il groppo in gola per buona parte della performance.
E’ da un po’ che volevo scrivere qualcosa su PJ Harvey – Musiche, maschere, vita, il bel libro scritto da Stefano Solventi e da poco pubblicato da Odoya Edizioni sulla cantautrice del Dorset e sulla sua ormai quasi ventennale carriera. Volevo lodare Solventi (già tra le migliori penne de Il Mucchio e Sentire Ascoltare) per essere riuscito come forse nessuno prima di lui a rendere giustizia alla figura di Polly Jean e alla sua complessità; e volevo consigliarvelo, ai fan come ai neofiti, perchè è un bel modo per ripercorrerne la carriera (e avere una scusa per riascoltarne i dischi) o per approcciarsi per la prima volta alla sua multiforme grandezza.
Poi però, prima di mettermi a scrivere, ho cercato in rete una canzone da linkare a corredo del post, e visto che ho già pubblicato l’estate scorsa video e MP3 delle sue canzoni più recenti, mi sono messo a cercare qualche nuova cover. E purtroppo mi sono imbattuto in questa inutilissima versione di This is Love (da Stories from the city, stories from the sea) firmata dagli inutilissimi The Feeling (un gruppo tra le cui fila milita il marito di Sophie Ellis Bextor, per dire), e mi è passta la voglia di scrivere il post.
Il libro però leggetelo, ché è bello.
The Feeling – This is love (PJ Harvey cover) (MP3)
Avete mai desiderato di avere di nuovo 11 anni?
Io mai, lo confesso. Le scuole medie di solito sono un periodo tutt’altro che piacevole: finita la spensieratezza delle elementari e non ancora imboccata la selvatica esplorazione del mondo adolescenziale, per una manciata di anni si è intrappolati in una terra di mezzo in cui non ci sono coordinate sicure e in cui ciascuno va alla sua velocità. Io non ricordo quasi niente dei miei 11 anni, se non i pomeriggi a leggere Lo Hobbit e Il Signore degli anelli e a registrare mostruose compilation di canzoni dalle radio locali con il radiolone rosso di mia sorella, mentre uno dopo l’altro i miei amici delle elementari tutto d’un colpo diventavano bulletti da bar e smettevano di trovare interessanti i Lego con cui io, imperterrito, continuavo un po’ colpevolmente a giocare.
Probabilmente è uno dei pochi periodi della mia vita che non ho mai desiderato di rivivere. Almeno fino a un paio di giorni fa, quando ho letto Facciamo un videogioco!.
Facciamo un videogioco! è il primo romanzo di Ivan Venturi, illustrato da Francesco Mattioli e edito da GradoZero Edizioni (un nome che dovrebbe dire qualcosa a più di uno di voi, visto che un suo 50% ha scritto varie volte su queste pagine). E’ un romanzo per ragazzi («a partire da 9 anni», recita la quarta di copertina), un genere che normalmente fa fuggire a gambe levate qualunque adulto che non abbia figli in età scolare, e che personalmente non frequento appunto da quegli anni. Quando ho saputo che GradoZero avrebbe pubblicato un romanzo per ragazzi dedicato al mondo dei videogiochi ho pensato che le ragazze avessero un gran coraggio, data la nota difficoltà di rendere per iscritto (quasi) tutte le tematiche tecnologiche diverse dalle visioni di fantascienza e cyberpunk. Quando ho saputo che il libro non parlava solo di giocare ai videogiochi ma addirittura di crearne uno, ho concluso che fossero completamente impazzite. E ne ho prenotata una copia.
Non consideravo che a firmare era Ivan Venturi, uno che di videogiochi ne sa, perchè per quella strada c’è passato. Già colonna portante della leggendaria Simulmondo (per cui nel 1987 ha creato Bowls, il primo uno dei primi videogiochi interamente italiani), Venturi è qui all’esordio come scrittore, ed è forse proprio questo -unito al dichiarato, inevitabile, autobiografismo- a rendere la storia così autentica. E in qualche modo addirittura entusiasmante, nel momento in cui le parti narrative si incastrano alla perfezione con quelle più didattiche per raccontare una storia che è prima di tutto una lezione sull’importanza dell’immaginazione e su quello che può fare. Soprattutto se ha in mano gli strumenti giusti.
Strumenti che ci sono. Come ciliegina sulla torta, allegato al libro c’è il CD-ROM Inventastorie, versione light dell’authoring system usato dai protagonisti del libro, che consente in modo piuttosto semplice di creare a chiunque adventure games spartani ma di sicuro effetto. Magari non ci si riesce a ricreare Monkey Island, ma certi adventure dei vecchi tempi non sono poi così lontani.
E ti riscopri, a fine lettura, a desiderare di poter avere di nuovo 11 anni, per poterti imbattere in un libro così, leggerne le pagine ancora e ancora e scoprire che anche tu potresti non essere così diverso dal protagonista del libro. E che avere 11 anni, dopo tutto, forse non è poi così male.
Finalmente è arrivato.
Con solo un paio di mesi di ritardo (l’avevo ordinato a settembre), qualche giorno fa mi è arrivato il libro di XKCD , la clamorosa nerd comic strip che Randall Munroe pubblica ogni lunedì, mercoledì e venerdì sul suo sito. Se bazzicate la parte abitata della rete e avete amici geek non potete non aver incrociato almeno una volta le sue vignette; il libro ne raccoglie una selezione delle migliori, insieme a un po’ di inediti e di annotazioni (spesso a prima vista incomprensibili).
Purtroppo, come testimonia Anobii, ancora dalle nostre parti a parte me non l’ha comprato nessuno. Datevi da fare! Se avete amici o parenti nerd, geek, informatici, ingegneri, smanettoni, tecnomani & co., XKCD Volume 0 è il regalo di Natale ideale.
[on a slightly unrelated note, stasera a Impronte digitali parleremo di Anobii e del suo controverso libro, appena pubblicato da Rizzoli. Dalle 19 sui 103.1 FM a Bologna e dintorni, streaming qui]
Ieri sera Randall Munroe, l’autore del vostro web comic preferito, ha incontrato il pubblico durante una serata di raccolta fondi della Electronic Frontier Foundation chiamata Geek Reading (…) per rispondere alle domande che gli sono state poste su Reddit da decine di fan.
Il tutto in occasione dell’uscita del suo primo bellissimo libro, già segnalato dal capo su Twitter e da me su Tumblr.
Ecco il video della prima domanda. Le altre li trovate tutte belle in ordine sul magnifico sito io9, che è anche la fonte della notizia e dei video.
Scusate il titolo cretino.
Oggi non è un giorno come gli altri.
Per qualche coincidenza astrale oggi in Inghilterra escono contemporaneamente tre dei libri che da queste parti sono i più attesi dell’anno: The death of Bunny Munro di Nick Cave, Generation A di Douglas Coupland e Juliet, naked di Nick Hornby.
Mentre attendo che i primi due arrivino nella mia cassetta della posta (per il terzo aspetto), in rete è tutto un fiorire di articoli e recensioni, ed è impossibile non notare che i tempi in cui un libro era solo un libro e si promuoveva da sè grazie agli scaffali delle librerie, alle recensioni sui giornali e al passaparola sono ormai passati.
Nick Cave – The Death of Bunny Munro
Del secondo romanzo di Nick Cave abbiamo già detto, ma non abbiamo menzionato la versione audio del libro, che avrà pure una colonna sonora composta e registrata da Cave per l’occasione (qualcosina si può sentire qua), e che quindi più che un audiolibro sarà un vero disco spoken-word. Per non parlare della versione per iPhone (peraltro, Cave possiede un iPhone), che fonde testo, reading e musica in modo a quanto pare inedito (dettagli sul Guardian).
Inoltre, ispirandosi dal mondo della discografia il libro di Cave esce in varie versioni, da quella standard a quella audio (in download o in box set con DVD bonus) fino a quella firmata, numerata e con sopracoperta, di cui al momento sono rimaste una novantina di copie, e costano ciascuna 120 sterline (questo si chiama approfittarsi dei fan).
Douglas Coupland – Generation A
Versione limitata con sovracoperta anche per Douglas Coupland, il cui Generation A si pone come seguito ideale del leggendario Generation X, esattamente come JPod era il seguito ideale di Microservi (cos’è Doug, finite le idee?). E gli acquirenti dell’edizione deluxe hanno a disposizione il sito Customized Coupland, in cui ciascuno può disegnarsi la propria versione dell’iconica copertina e farsela spedire per la sovracoperta (non è chiaro se a pagamento o meno).
Nel mentre però, il Daily Telegraph ha stroncato il libro. Ahi ahi.
Nick Hornby – Juliet, Naked
Essendo quello che vende di più dei tre, Nick Hornby sta un po’ a guardare, e non può vantare nè edizioni limitate del libro nè un intero sito ad esso dedicato. E non è detto che sia un male.
Come riporta Emmebi, però, la sua casa editrice Penguin per il lancio del libro ha proposto un sondaggio che invita a votare la più bella break-up song di tutti i tempi. La votazione ha il valore che ha (al momento vince Back to black di Amy Winehouse, con percentuali talmente bulgare da indicare che sicuramente i dati non sono validi), ma l’idea è efficace, e ci fa capire che il libro colpirà basso.
Pare infatti che Juliet, naked parli di «relazioni tra trentenni, di passioni/ossessioni musicali e di conversazioni su internet» (citando Emmebi. A I U T O); vedremo se, come si chiede Enzo, c’è davvero aria di «revival di noi stessi». Il Guardian ne parla abbastanza bene.
E chissà quando li vedremo in Italia. Del fatto che Feltrinelli è già al lavoro sulla traduzione di Nick Cave abbiamo già detto (secondo il copertinario uscirà a Ottobre), e possiamo star certi che un best seller come Hornby arriverà il libreria prima di Natale (Novembre pare, per Guanda); mentre per Coupland invece ci sono come al solito poche speranze di vederlo a breve, visto che in Italia è ancora inedito il precedente The gum thief, che risale a due anni fa e che è forse il migiore tra i suoi romanzi più recenti.
E mentre la settimana scorsa Nick Cave è passato come quasi tutti gli anni nel bel paese (con una data al Traffic di Torino, che mi sono perso perchè dopo una decina di live non sono più il fan irriducibile di una volta) cresce l’attesa per il suo secondo romanzo The death of Bunny Munro, che sarà pubblicato in USA e UK il 3 Settembre.
Dotato di un intero sito dedicato (comprensivo di reading audio e video come quello qua sotto), il libro racconta la storia di un venditore di prodotti di bellezza porta a porta nel sud dell’Inghilterra, ed è stato definito da Irvine Welsh come «un incrocio tra Cormac McCarthy, Franz Kafka e Benny Hill». Pare che la pubblicazione italiana tarderà poco (è già al lavoro Silvia Rota Sperti per i Canguri Feltrinelli) anche se non è ancora stata annunciata una data di uscita.
Dopo aver visto questo video sono molto, molto curioso.
Se come me avete amato alla follia Persepolis (sia il fumetto di Marjane Satrapi che il bel film che da esso è stato tratto), non potrete non apprezzare Persepolis 2.0, breve fumetto ad opera di due iraniani espatriati in Cina che riprende alcune tavole del fumetto originale e le usa, con nuovi testi, per descrivere le ultime, controverse, elezioni in Iran.
Clicca sull’immagine per leggere il fumetto.
(via)
Le straordinarie e immortali parole di Pier Vittorio Tondelli (da Viaggio, uno dei racconti milgiori di Altri libertini) sono state l’incipit del secret show di stasera alla Unhip Factory, dalle parti di Piazza Santo Stefano nel pieno centro di Bologna. Sul palco Vasco Brondi (alias Le luci della Centrale elettrica) supportato dallo scrittore Enrico Brizzi col quale ha duettato in un paio di reading delle parole di Tondelli prima di lanciarsi in un insolito set acustico che non ha lasciato il pubblico indifferente. Qua sopra una foto rubata all’evento via cellulare, visto il rigoroso divieto di riprese audio-video.
Una serata che sarebbe piaciuta a Tondelli, probabilmente.
Il tavolo era tondo, di legno chiaro e con troppe mani di vernice. Erano in tre e undici anni tutte.
Valeria, scura di capelli, di occhi e di pelle, denti dritti e bianchissimi. Medaglia della Virgen de Luján regolarmente al collo. Ad essere un po’ stronza l’avresti apostrofata come la tipica india sudamericana. La tua migliore amica, avresti potuto permettertelo.
Iliana, capelli castani e occhi marroni, denti altrettanto dritti, un po’ meno bianchi e congenitamente altezzosa, in Argentina ti avrebbe dato sempre quell’impressione di oligarchia latente, in Spagna sarebbe diventata un’Arantxa qualunque, con un bel paio di orecchini di perle e i colpi di sole freschi di parrucchiere.
La terza si chiamava come non avrebbe dovuto, portava l’apparecchio ai denti -l’ortodonzia andava fortissima- e descrive.
Tutte perdutamente innamorate del loro compagno di classe. Leandro era bruno, con le lentiggini ed il Bar Mitzvah in cantiere. E infatti la questione era tutta lì, discutere del fatto che a sposarti un ebreo molto probabilmente saresti dovuta diventare ebrea anche tu. ‘Sai, la sua famiglia..’ esponeva seria la padroncina di casa. Era l’ottantasette, al governo c’era Alfonsín e la dittatura era finita.
Nathan Englander è un ebreo con il naso parecchio grosso, nato nel 1970 a New York ed Il Ministero dei Casi Speciali è il suo secondo libro e primo romanzo. La storia è quella nota del desaparecido. Non è l’informe della CONADEP, non è Il Volo di Verbitsky eppure risulta sia sobrio che coinvolgente. È un romanzo e ripeterselo ogni tanto mentre si legge fa più bene -o meno male-.
Una famiglia ebrea ripudiata dagli stessi ebrei con un figlio ventenne nel 1976 a Buenos Aires, di come si possa violare un’identità in tanti tristi conosciuti modi diversi.
Ottima l’idea di introdurre la chirurgia estetica come mezzo per smettere di essere visibilmente quello che si è: ebrei dal naso enorme come la propria Storia. Ottima l’idea del mestiere paterno: incidere lapidi non per scolpire nomi ma per strappare dai vivi i morti, diventati carico inaccettabile nella Comunità in continua visione di repulisti.
S’incontrano molti personaggi di quegli anni, il generale con il bambino rubato e la moglie cinica e ricca, il vicino spaventato, chi acconsente e chiude gli occhi, l’ambigua figura clericale e il pentito –educato all’ESMA– dei voli nel Río de le Plata e ovunque tutta quella burocrazia implementata ai limiti della ratio.
Dimostrare la tua esistenza una volta scomparso è la parte più difficile, sei senza documenti, non risulti detenuto e i tizi che hanno bussato alla tua porta, quella porta che ti ha regalato tua mamma per salvarti, sono senza divisa e viaggiano in Ford Falcon. Una famiglia che si rompe ed i pezzi finiscono sui lati opposti del tuo piano bidimensionale per gli urti anelastici. Efficace e cattivissima l’idea delle ossa.
Tutto qui ruota intorno al sistema solare dell’essere. Chi sei per i tuoi genitori, per i tuoi amici in rubrica e per lei, che verrà dopo di te nella tua cella e mangerà i tuoi pensieri provando a salvarti, ringraziandoti della civiltà con cui le hai regalato il tuo nome.
E conta tantissimo la pacatezza di certe immagini e l’ironia di rapporti familiari -normalmente difettosi- prima di coprire lo specchio.
Oggi potrebbe essere una buona giornata per fare un salto in libreria. Ieri infatti per Mondadori Strade Blu è uscito Sono io che me ne vado, il romanzo d’esordio di Violetta Bellocchio.
Oltre che blogger di lungo corso (la lista di URL che ha cambiato nel corso degli anni è più lunga della strada che porta in Versilia; al momento la trovate su Valley of the doll e Rimozione da Tiffany) Violetta è un’amica (un paio di volte ha pure scritto qui, e mi ha promesso che lo farà ancora), quindi sono tutt’altro che obiettivo nel dirvi che ho già letto il libro e che è fortemente consigliato. E’ il tipo di libro che non si riesce a raccontare, ma chi conosce Violetta e il suo stile denso, criptico e sorprendente sa bene che questo può solo essere un complimento.
Se avete dubbi, potete leggere un paio di capitoli sul sito, oppure dare un’occhiata alle surreali FAQ (un frammento qui sotto). Poi compratelo.
Dove abiti?
In una piccola città chiamata Non Sono Affari Tuoi.
Non fa ridere.
Hai ragione, col doppiaggio si perde sempre qualcosa.
Hai mai gestito un bed and breakfast?
No, e dubito che dopo questo libro qualcuno mi darà i soldi per aprirne uno. Però da ragazza ho fatto le pulizie in un ostello della gioventù. A Berlino. E’ stato il mio quarto d’ora di celebrità.
Hai mai avuto un "lavoro spiritualmente degradante"?
Dipende dai punti di vista.
[…]
Dimmi qualcosa che ancora non so.
Ho guardato più episodi di "Law and Order – Unità Vittime Speciali" rispetto a chiunque altro sulla faccia del pianeta.
E cosa vuoi, una medaglia?
Touché.
Questo romanzo è autobiografico?
Alcune cose sono successe, altre me le sono inventate, e non dirò mai cosa è cosa.
Se mai qualcuno si questo blog volesse fare una rubrica sui libri, ecco un logo perfetto. Creato da me medesimo in 5 minuti con questo alfabeto a base di libri e Microsoft Paint. Non è male, secondo me.
Non mi piace riascoltare i dischi di un gruppo prima di andare a un concerto. Trovo che rovini l’esperienza del live decimando le possibili sorprese ed inibendo ogni Madeleine. E poi non posso non pensare alla mia vicina che ululava a squarciagola "piccola Katy" prima dei concerti dei Pooh. Sgradevole. A casa mia non cantava mai nessuno e per questo ci ho messo un po’ a capire che quello che non faccio mai coi dischi e i concerti l’ho fatto coi fumetti e le mostre.
Ieri ad esempio mi sono riletto Black Hole di Charles Burns perché sapevo sarebbe stato in mostra a Bologna al Festival Internazionale di Fumetto BilBolBul. L’ho ripassato, così come la mia vicina ripassava l’opera completa di Facchinetti e Canzian per essere pronta alla performance. Perché alla fine vedere la tavola originale è l’unico modo per toccare con mano la performance fumetto: le sporcature di matita, le sbianchettate, le pecette. Normalmente non sono così interessato a questi aspetti tecnici: vedere la grammatura della carta o scoprire che l’artista usa una mina HB invece che B mi lascia indifferente. Ma a volte sento che devo riuscire a capire cosa c’è dietro le quinte, e questo capita quando mi imbatto in un’opera perfetta.
Black Hole è perfetto perché tutto, ma proprio tutto, ha un motivo per essere lì e tutto, ma proprio tutto, è intrecciato e dialoga con tutto il resto. Tutto si tiene. E’ una di quelle opere che ti fa sentire in colpa se non ti piace. Lei è perfetta, al massimo sei tu che non sei interessato a quello che vuole raccontare per qualche tua idiosincrasia. Cosa che può benissimo capitare, dopotutto l’argomento principale sono le vagine mutanti.
La trama in brevissimo: Seattle, 1975 circa. Un virus ("the bug") si propaga per via sessuale tra gli adolescenti, rendendo mostruosamente deformi i contagiati. In alcuni casi i malati son talmente orribili da doversi rintanare nei boschi, mentre i meno sfigurati provano a proseguire la loro vita camuffando il marchio dell’infamia.
Non un’allegra commedia rosa, capirete, anche se gli ingredienti di partenza sono gli stessi: l colpo di fulmine tra i banchi di scuola, la prima volta, il lavoretto estivo, il campeggio, la fuga d’amore. Solo che il manzo della scuola questa volta ha due bocche e la gnocca di turno una coda da lucertola.
Le vicende di Rob, Chris, Liz e gli altri ragazzi si annodano in una rete di flash back, forward, lunghe sequenze oniriche ma soprattutto simboli sessual-freudiani, che costellano tutto la storia punteggiando ogni passaggio. Un simbolo in particolare ritorna con particolare forza e importanza, tanto che sembra che tutto ruoti attorno ad esso: la figa. Fighe-ferita, fighe-varco, fighe-gorgo che solo piselli ritorti possono penetrare, fighe-fighe. Figa ovunque, anche nel titolo a guardare bene.
Non si parla sempre di sesso in Black Hole ma la sessualità pervade tutto, come nelle vite di ogni adolescente. Solo che qui tutti i timori si realizzano in pompa magna. Il segno di Burns incarna perfettamente la tensione tra desiderio e terrore, innocenza e colpa: le linee precise, prese a prestito dagli anni ’60 più pop, sono sommerse da litri di minaccioso inchiostro nero senza alcun grigio che possa portare sollievo.
Ed è questo che vorrei vedere alla mostra, il nero: avrà imbarcato il foglio da quanto ne ha messo? Avrà usato della carta spessa come compensato per assorbirlo? Si riuscirà a vedere qualcosa sotto quel muro d’inchiostro, delle matite, delle imprecisioni? Non posso cedere che la realizzazione sia stata perfetta come l’opera. Per farla Burns ci ha impiegato 10 anni (dal 1995 al 2005), avrà di sicuro dovuto correggere qualcosa a posteriori, per omogeneizzare tutto. Avrà rifatto delle vignette. Deve averlo fatto.
Così mi sono riletto il libro per vedere le differenze, per capire il processo. Non credo che la mia vicina pensasse a questo quando ricantava "uomini soli" ma sono certo che tremava di gioia per qualche accordo un po’ diverso, qualche nota un po’ fuori posto: rendevano i Pooh un po’ meno perfetti ma molto più veri.
Il problema è tutto qua.
Vi sognereste mai, voi- dice Marco Cassini- di chiedere gratuitamente, così, solo "a titolo personale", un consulto medico al vostro ginecologo di fiducia per la prostata di vostro zio? Così, "soltanto per un parere".
Beh, insomma. Marco Cassini non dice proprio così. Però il concetto rende.
Marco Cassini – lo dico per i lettori di inkiostro che non hanno abbandonato il post alla parola "prostata"- è il direttore editoriale di qualcosa come il 90% dei libri che voi lettori di inkiostro cui la prostata vi sembra qualcosa di ancora più anziano degli Europe, sfogliate, leggete, avete sul comodino, avete-lì-e-non-sapete-di-avere, adorate, citate a memoria (stralci di Carver), riscrivete (come Carver), vi piacerebbe scrivere (come Carver) eccetera eccetera.
minimumfax, dico.
Il libro è una sorta di autobiografia-con-prostata. Parte da una malattia (realmente psicosomatica). Finisce in una malattia (allergicamente contagiosa) che è la malattia dei libri.
Ora. La frase di cui sopra si riferisce a un particolare fenomeno che colpisce immancabilmente chi lavora (o chi come me ci lavora solo tangenzialmente) in editoria. Sto parlando di quella cosa per cui al vostro generico aggirare l’imbarazzo provocato dalla domanda "Che lavoro fai?", non potendo effettivamente corrispondere con un altrettanto comprensibilissimo "Sono un imprenditore!", non riuscendo d’altronde neanche a chiedere all’ascoltatore pietà sulle parole "editor" o "fotolitista", buttate lì un vago "Mah lavoro in editoria…", questa cosa immancabilmente costringerà, e notate il verbo, non scherzo, costringerà, dicevo, quintali di aspiranti scrittori a sottoporvi le loro immortali opere "soltanto per un parere personale". Come se voi andaste dal ginecologo e, come sopra, diceste: "Già che ci siamo non è che può dare un’occhiatina anche alla prostata di mio zio, per favore? Solo per un parere personale".
E’ capitato a Marco Cassini, come chissà a quanti altri editori. E’ capitato anche a me, pensate.
Non so se c’entra qualcosa, ma io mi ricordo un fracco di morti fighi, nella mia vita. Allora, mi ricordo di quando morì Rodari, insieme a Montale. Più o meno. Ora, per voi lettori di inkiostro sarà preistoria archeozoica, però posso dire di avere vissuto i miei primi sei anni di vita con loro, perché di John Lennon non me n’è mai fregato granché.
Poi, sbalzellonando su e giù per la linea di un tempo che ormai sembra scolpita più sulle mie rughe che sulle mie curve, arriviamo a pochi chilometri orsono. Morì nonno Kurt, a seguire nipotino David. E oggi muore zio Updike, in due centimetri di TG1, in sala, mentre di là sto cucinando risotto allo zafferano.
Io non ho mai amato niente della morte, né del dopo. Per dire, da mio nonno, al funerale, mi ci han portato a forza- io, vecchia adolescente in anfibi che vageggiavo il Nulla, mica la morte, cari miei, no no, il Nulla Solitario Leopardiano Che Era Lì Dentro Tutto In Me, insomma da mio nonno mi ci portano a forza, ma non sono mai, come direbbe mia madre, "andata a trovarlo dopo". Per carità, evitatemi bare fioristi e vecchie coi rosari-ii.
Ecco, dicevo, io che non ho nessuna sensibilità nei confronti del post mortem (passatemela, suvvia…), sto come un cane ogni volta che mi muore qualcuno che ho letto. Bastardi. Bastardissimi scrittori di merda, dico, questo non vuol dire sconfiggere la morte ai posteri l’ardua eccetera e tutte quelle balle lì. Questo vuol dire fare affezionare come cagnoloni bavosissimi i vostri lettori a quello che avete subdolamente inventato e con cui ci avete irretito. E ora stiamo tutti male.
Tutto questo per dire che ancora non ne esco da DFW e quindi dovrò andare in analisi, non mi bastano neanche più le duecentesime riedizioni camuffate da nuove collane dell’editore-di-cui-sopra, no.
Ma volevo dire anche altro, però.
Insomma, scrivere non è un affare per molti, non è che ti puoi metter lì, carta penna e calamaio, che son dopotutto strumenti facilifacili, "alla portata di tutti" come dicono quelli che scrivono male e che ti chiedono "soltanto un parere", mica come girare un film, a girare un film ci vuol tutto l’ambaradan di mezzi soldi e chissà-perché-per-il-film-sì-e-per-il-romanzo-no ci vuole soprattutto la tecnica. Sapere cosa si vuol dire e soprattutto come lo si vuol dire.
Sapere che ci sarà da qualche parte, anche solo una zia, un parente, una fidanzata impietosa- dio, dio dimmi che esistono ancora le persone impietose- che leggerà la vostra cosa. E che leggendola non saprà come gesùsantissimo dirvi: ehi ehi, questa cosa ehm fa schi-fo! Fiu-uuu.
Non come me adesso, insomma. Che non so dove sto andando a parare. So solo che sto cercando qualcuno che scriva, ahahahahahaha.
No, giuro.
Ve lo giuro.
Ho smesso con gli adulti.
Passo ai bambini.
E questa è la modalità Humprey che ogni tanto sbuca fuori dai tempi in cui adolescente mi immedesimavo in Sam e non nelle fighe che piantavano Sam per il primo motociclista nazista che passava di lì.
No, dicevo.
Cerco scrittori per storie di bambini. Gli adulti, secondo me, han già troppo da leggere. Togli pure tutto quello spreco di alberi che si vede ogni giorno in libreria, vi giuro che potrei spianare a chiunque di voi chilometri e chilometri di scaffali immaginari con Morti Da Non Perdere.
Ma i bambini sempre secondo me han poi poco. Togli Harry Potter (che metterei invece nei chilometri-di-cui-sopra e da cui, lasciate fare va’, molti scrittori per adulti dovrebbero solo imparare), togli i regaz della via Pal, poi alla fine rimangon tante belle illustrazioni, cioè troppo artizzzztiche, rimangono lupi cattivicattivi, principesse buonebuone, coniglietti teneriteneri e tanti troppi vomitevoli topi. Topi topi e topi da fogna in tutte le salse. Ratti da fogna, uscite dalla mia libreria, maledetti topacci.
Voglio voi, scrittori ahahahahaha di storie per bambini, che non parlate puccipucci ai bambini, ma che almeno una stracazzo di volta nella vostra vita avete guardato i bambini per quello che sono: degli indiscutibili cacacazzo cui manca totalmente la cognizione di Dignità (si scaccolano tranquillamente in pubblico), di Società (interrompono ogni tipo di discorso, a tavola e non solo), di Prostata (mamma mamma cos’è la prosta-tara-tà-tà-tààààààààà ti sparo, sei morta), ai quali avete voglia di fare un regalo. Così, Giusto per farli crescere un pochettino.
Vogliate mandare le vostre proposte alla seguente mail (info | at | studiogradozero.it). Sarete letti, giudicati, sbeffeggiati, amati, scherniti, buttati fuori dalla finestra, dovrete crescere, dovrete troppo essere dei nostri, farete un fracco di cose, insomma, potete anche provarci. In fondo siete ancora vivi.