I Mars Argo, che hanno preso la celeberrima suoneria “Marimba” dell’iPhone e ci hanno costruito sopra una canzone. Abbastanza irritante (e non poteva essere altrimenti).
I Mars Argo, che hanno preso la celeberrima suoneria “Marimba” dell’iPhone e ci hanno costruito sopra una canzone. Abbastanza irritante (e non poteva essere altrimenti).
L'effetto è noto: esce la nuova versione di gadget tecnologico e chi possiede il vecchio si sente, in qualche modo perverso, sminuito, e inizia a guardare con occhio diverso lo stesso gingillo di cui fino a un paio di giorni prima andava fiero . E quando si parla dell'iPhone, chevvelodicoaffà, la cosa è amplificata a livelli drammatici al limite dell'immoralità.
Il meccanismo, ovviamente, è tutto psicologico. Prendete l'esperimento che ha fatto l'altroieri Jimmy Kimmel: il suo staff è andato in giro per le strade di Los Angeles facendo provare ai passanti un iPhone 4S spacciandolo per il nuovissimo iPhone 5 (che era stato presentato quel giorno stesso) e chiedendo loro se gli sembrava che fosse migliore o peggiore del modello precedente. Il risultato? E' esattamente quello che vi aspettate.
Se c'è una cosa divertente e contemporaneamente insopportabile di ogni rilascio di una nuova versione di iPhone è la ridda di voci e rumours che già da mesi prima si rincorrono sui siti di mezzo mondo, anticipando da fonti che sono invariabilmente descritte come anonime ma molto affidabili le nuove caratteristiche del gioiellino di casa Apple. Su alcune cose le voci sono d'accordo, su altre cose neanche per sbaglio, e a presentazione avvenuta poi finiamo per scordarci quasi sempre di quale fonte ci aveva preso e di quale evidentemente si era inventata quasi tutto per fare qualche pageview in più.
Per tenere traccia di quanti e quali fonti prevedono una caratteristica o l'altra, il sito francese Nowhere else ha pubblicato ieri una bella infografica riassuntiva, che tornerà molto comoda anche tra qualche settimana per controllare l'attendibilità delle fonti e fidarsi meno la prossima volta.
(qua sotto un assaggio, infografica intera qui)
Chiunque abbia uno smartphone o un tablet e non viva su Marte (o a Monti) già conosce e ama Draw Something, la app simil-Pictionary che da mesi spopola in tutto il mondo. Io sono un cane a disegnare e sono ancora peggio su un touch-screen, quindi mi diverto un sacco (ed è probabilmente anche la mia pochezza a divertire gli amici che mi sfidano). E mi divertono cose folli come Ignore Hitler, il progetto assolutamente insensato che il suo autore descrive così: «I draw unrelated furers on Draw Something». Se non ci vedete brutti riferimenti nazistofili (io, forse a torto, non ce li vedo: mi sembra semplicemente iconografia pop) è una di quelle piccole cose stupide che ti danno la dipendenza. Ed è ancora meglio quando diventa meta.
E' martedì, e il martedì –lo sanno tutti– è il giorno di Impronte digitali, il magazine di web e nuove tecnologie condotto da Pirex e dal sottoscritto e che va in onda dalle 19 alle 20 sulle frequenze amichevoli di Radio Città Fujiko (103.1 FM a Bologna e provincia, oppure in streaming in tutto il mondo).
Oggi ci addentreremo nel meraviglioso mondo di Instagram (l'app per iPhone di condivisione sociale di foto di cui vi ho giò parlato un annetto fa) e della comunità dei suoi utenti (gli Instagramers, o Igers). Lo faremo guidati da Silvia aka binbaa, appassionata della piattaforma fin dagli inizi e co-titolare della branca bolognese della comunità (gli IgersBologna). Silvia ci spiegherà cosa c'è di speciale in questa app e perchè ha avuto così tanto successo, e ci racconterà della sua comunità che ha da poco fatto a Milano il primo raduno italiano (l'InstaMeet). Ma la scusa per parlarne sarà l'happening che c'è stato venerdì scorso in città alle Officine Minganti, in cui gli IgersBologna hanno messo in piedi un concorso e una mostra (che va avanti fino al 29 Ottobre).
Dalle 19 alle 20 sui 103.1 FM di Radio Città Fujiko a Bologna, oppure in streaming. E da domani, qua sotto il podcast.
Ci sono un sacco di cose da imparare dalla vicenda di Phone Story.
Gioco per smartphone creato da quei geniacci di Molleindustria e dedicato a rappresentare alcuni dei lati oscuri dei gadget scintillanti che tutti portiamo nelle nostre tasche (dagli orrori legati all'estrazione delle materie prime in Africa alle condizioni di lavoro degli operai delle fabbriche di assemblaggio in Cina), Phone Story è stato lanciato stamattina sull'App Store ed è stato bloccato dalla Apple appena due ore dopo, con motivazioni, se non pretestuose, quantomeno esagerate.
Questa la descrizione del gioco:
Phone Story is a game for smartphone devices that attempts to provoke a critical reflection on its own technological platform. Under the shiny surface of our electronic gadgets, behind its polished interface, hides the product of a troubling supply chain that stretches across the globe. Phone Story represents this process with four educational games that make the player symbolically complicit in coltan extraction in Congo, outsourced labor in China, e-waste in Pakistan and gadget consumerism in the West.
Keep Phone Story on your device as a reminder of your impact. All of the revenues raised go directly to workers' organizations and other non-profits that are working to stop the horrors represented in the game. [#]
E questo quello che scrivono gli autori della sua eliminazione dall'App Store:
Phone Story was pulled from the iTunes App Store on Tuesday September 13 at 11.35am, only few hours after its official announcement.
Apple explained that the game is in violation of the following guidelines*:
15.2 Apps that depict violence or abuse of children will be rejected
16.1 Apps that present excessively objectionable or crude content will be rejected
21.1 Apps that include the ability to make donations to recognized charitable organizations must be free
21.2 The collection of donations must be done via a web site in Safari or an SMS
We contest the violation 21.1 and 21.2 since it's not possible to make donations through Phone Story. Molleindustria simply pledged to redirect the revenues to no-profit organizations, acting independently.
We are currently considering two steps:
. Produce a new version of Phone Story that depicts the violence and abuse of children involved in the electronic manufacturing supply chain in a non-crude and non-objectionable way.
. Release a version for the Android market and jailbroken ios devices.
The users who managed to buy the app before it went offline are now owners of a rare collector edition piece.
A casa mia questo si chiama autogol.
Una spettacolare fusione di prestigitazione vecchio stile e app developing. (grazie a Nico)
C’erano una volta i vinili di mio padre […]. Quelli che quando posizionavi la puntina sul primo solco, il cuore ti batteva fortissimo nelle orecchie e aspettavi quel rumore inconfondibile, quel fruscio affascinante che ti lasciava con il fiato sospeso per qualche frazione di secondo.
Sabato sarà una festa memorabile per coloro che amano dire: “il giradischi ha un suono caldo e corposo” […] Poi arriveranno quelli de “L’ODORE DELLA CARTA!” e si accorgeranno di aver sbagliato giornata.
Il testamento di Kurt Cobain, morto qualche mese prima, era nelle mie mani. Lo portai a casa, lo scartai e venni invaso dall'odore di carta del libretto, ruvido, composto da foto e illustrazioni con i colori saturi, che stridevano con la tristezza del disco.
Lo annuso sempre, quel cd e, credetemi, l'odore di carta c'è ancora, solo un po' affievolito dagli anni.
Corro a casa col sorrisone stampato in faccia e tiro fuori il disco. Puzza. Diobono, mamma, senti che puzza, accidenti, ecco perché costava meno. Mia madre prende il disco e ride. Non è puzza, è patchouli, si vede che a Madonna piace il patchouli.
All’odore del vinile ho rinunciato da tempo.
“Devi scrivere un pezzo su Disfunzioni? Fantastico, scrivi dell’atmosfera, dell’odore…”
“Quale odore, scusa?”
“Quello dei vinili…”
Se la mia non è stata la generazione più inutile della storia, poco ci manca.
Captatio
Questo post parla del Record Store Day 2011, che è oggi. È nato da una cortese richiesta collettiva del piccolo Franci per Vitaminic, e avrebbe dovuto essere scritto ieri. Quando ancora, nella mia testa, era una cosa breve e piacevole. Però ieri dovevo fare altre cose, poi cucinare, poi sono venuti a casa Thom Yorke e Walter Veltroni, abbiamo discusso molto dell’argomento, ed è diventata questa specie di mastodontico romanzo di formazione che mi ha preso più tempo del previsto – però ho evitato la deriva marxista cui inizialmente continuavo a tendere. Le citazioni sono più o meno decontestualizzate, e comunque ridotte ai minimi termini; sono una piccolissima parte dell’enorme mole di post prodotti in questi giorni e non sono state scelte in base al gradimento (ho omesso molte cose che ho trovato stupende), ma solo per la loro pertinenza con quanto segue. Le potete ritrovare per intero nei riepiloghi giornalieri di questa settimana di post a tema RSD, sempre su Vitaminic, che vi consiglio sinceramente di leggere. Inoltre, se fate caso al nome dell’autore, lì in alto, vedrete che non è inkiostro. Sono io. Il signor blueblanket. Alcuni di voi sanno cosa significa: un monologo chilometrico, in parte vero in parte no, pieno così di link. Per gli altri, buona giornata. Io vi ho avvisato.
Un negozio di dischi è un luogo antropico a metà fra un parco dei divertimenti e il salotto dell’analista che desideri avere e che non puoi permetterti.
Bettole impolverate nascoste in viette sperdute, dischi ammassati come cassette di arance, commessi ultra quarantenni con lo sguardo basso che non dicono neanche "ciao" quando entri. […] Zero promozione, zero eventi, zero innovazione, zero volontà di farcela e di reinventarsi.
Perché nel buco di culo di mondo in cui sono cresciuto i negozi di dischi erano questo: impresentabili.
Secondo me per certe cose è sottovalutato, lo scotto della provincia (e bisogna anche vedere quale provincia). Ovvero, chi non ci ha vissuto certe cose è abituato a darle per scontate.
Io sono stato destinato dal Fato alla più anonima periferia della provincia laziale. Negozi di dischi: due o tre. Decenti: nessuno.
Il negozio di dischi cui avevo giocoforza deciso di appoggiarmi ha un nome futuribile ed esiste tuttora. Il proprietario, un tipo sulla quarantina coi capelli rasati ed una smorfia fissa sul viso, dava l’impressione di essere uno che come partito più a sinistra aveva votato la DC, a malincuore.
La sua competenza si estendeva in un arco oggettivamente piuttosto ampio e apprezzabile, che copriva, se ben ricordo, il peggio pop italiano, diversi tipi di dance, una discreta quantità di progressive ed un buon mazzetto di metal.
Io in quel negozio c’ero capitato la prima volta per caso, ma poi ci avevo comprato cassette destinate ad essere ascoltate (da me) più di quanto il buonsenso non suggerisca (gli 883; ma anche: Zucchero. Ma anche: Massimo di Cataldo. Etc.).
Non me ne vergogno, o non quanto dovrei; ci ho messo degli anni, per farmi una cultura musicale, ed ogni cosa è stata una mia piccola conquista. Vivevo in provincia, sono il primogenito (niente fratelli maggiori a suggerire nulla), mio padre ascoltava moltissima musica ma non me ne ha parlato per anni (suppongo perché scioccato da Zucchero; in compenso mi ha inflitto, sempre per anni, Paolo Conte in macchina, prima che io acquisissi finalmente la facoltà di intendere e di volere e potessi essergliene eternamente grato, come sono ora). Ero un sociopatico, molto più di adesso, e i miei pochi amici ascoltavano musica orribile o cantautori italiani (su cui in effetti ero più che preparato anche all’epoca).
Fino quindi ad un’età in cui il mio attuale coinquilino decideva di smettere per sempre di ascoltare i Beatles (troppo pop) e la mia coinquilina si dava anima e corpo ad un proto-punk vissuto con insolita moderazione dei costumi (la mia coinquilina è una punk ossimorica), io ho ascoltato prevalentemente robaccia. Avrei potuto continuare così ed avrei vissuto una vita felice, suppongo, e piena senz’altro di argomenti di conversazione con l’enorme Paesotto Reale che ti circonda in provincia.
Negozi del genere campano in parte sui clienti abitudinari (che diminuiscono anno dopo anno), in parte sul pubblico digitalmente analfabetizzato che, con la scomparsa dei cd pirata venduti in strada, è tornato a comprare dischi da sentire sull'impianto stereo della loro macchina, (rigorosamente privo di lettore MP3), e in parte sulle ragazzine che vanno a comprare il disco del loro idolo adolescenziale del momento.
Nessun negoziante mentore mi ha introdotto alla scoperta di band che hanno rivoluzionato la mia formazione, nessun esercente dai gusti articolati ha messo su un cd che mi ha fatto appizzare le orecchie. Come è possibile? […] La realtà di fatto è che nella mia adolescenza i negozi di dischi si dividevano in due categorie: quelli coi greatest hits di Celine Dion, e quelli in cui il gestore ti teneva d’occhio perché non ti inculassi i cd. Che poi, incularti cosa, se esposte c’erano solo le custodie vuote?
Se ciò non è accaduto, lo devo quasi esclusivamente ad un amico e collega di papà. Di lui ricorderò sempre con cifre probabilmente lontane dal vero la mole smisurata di cd che comprava ogni mese. Per corrispondenza, importati direttamente.
Era ed è una persona piuttosto schiva, e molto raramente me li consigliava, i dischi. Più spesso lo infastidivo io, chiedendogli se avesse questo o quel cd di gruppi di cui avevo sentito solo una canzone, per caso, su Tmc2. Che, sì, quand’ero piccolo io, da me MTV mica prendeva.
Lui mi prestava il cd, che spesso con mio sommo stupore suonava enormemente diverso dal singolo che già conoscevo, e ce ne aggiungeva uno o due di gruppi simili, che secondo lui mi sarebbero potuti piacere. È merito suo, e solo suo, se io ho potuto ascoltare i Pixies, i Pavement, gli Eels, Liz Phair, i Delgados, Beck. Cito a caso i primi nomi che mi vengono in mente, quelli che all’epoca smossero di più la mia idea di musica. Ricordo che nel ’98 fece qualche mixtape (ho un momentaneo lapsus sul termine italiano) a mio padre, che io rubai, chiaramente, da subito. C’era Chocolate Genius, più canzoni di quell’album favoloso; c’era, mi pare, Elvis Costello. E un sacco d’altra roba.
Della volta in cui mi mise su Novocaine For the Soul e dal suo preamplificatore a valvole partì il suono (campionato) di un vinile che fruscia non posso parlare, o sembrerei patetico. Però è successo, ed è una cosa che davvero mi ha cambiato la vita.
Ecco la cosa bella era che il comprare un disco, il farselo consigliare era una cosa di un “social” infinitamente più grande di qualsiasi altro social network dei giorni nostri.
Ai tempi io non avevo internet e per me l’informazione musicale arrivava unicamente dalle persone che conoscevo a scuola. Quindi andavo al Musicland e passavo gli espositori, chiedendo consigli e pareri. Era divertente.
Nel frattempo avevo iniziato a leggere il Mucchio (sempre su consiglio, o per emulazione, del mentore di cui sopra), e sulla base del Mucchio, cercando di non logorare oltremodo la pazienza del sant’uomo, andavo al negozio musicale sovradescritto. Nel ’98, mi ricordo, ero rimasto sconvolto da Last Stop: This Town. Avevo provato a chiedere in prestito il cd al Guru, ma l’aveva già prestato. Così mi feci forza ed andai dal signor Negoziodalnomefuturibile.
Gli Eels, gli dissi. E glielo scrissi. Contemporaneamente. Non nutrivo enormi speranze. Electro-shock Blues. Me lo cerca?
La trafila che si era stabilita da un po’ è che io gli chiedevo roba che lui, normalmente, non aveva. Lui andava a Roma, la comprava, amo pensare, clamorosamente sottocosto (spesso erano cd usciti anni prima, iniziavo a tentare di tappare buchi che ancora oggi ho) e me la rivendeva a prezzo politico: trentotto mila lire. Poi quaranta. Poi quarantadue.
Per gli Eels fu un po’ più complicato. Dopo tre settimane affermò di non averlo trovato. Poi che doveva arrivare. Poi che non c’era.
Lo ottenni dopo un paio di mesi d’insistenza, ma qualcosa si era incrinato.
Contemporaneamente, l’internet dei 56 kb e dell’inquietante rumore di composizione del modem stava conoscendo una delle sue più significative rivoluzioni. Si stava diffondendo Napster.
Io da Napster non mi procuravo solo musica. Ci chattavo, mettendo alla prova il mio inglese buono ma scolastico di 16-17enne (e non solo: una volta un fan dei Mambassa mi mise sotto processo perché avevo tra i miei file Se dei Naftalina. Ti piace la musica semplice, disse con un marcato tono dispregiativo, prima di un’accesa reprimenda. Da quel giorno cominciai a giustificare i file meno decenti affermando “sono di mia sorella minore”). Ricordo ancora con un certo senso di vergogna una volta che volevo dire “mi sento stupido” e dissi “I feel dump”. Dump, chiese il mio dirimpettaio, un pignolo rompicoglioni di qualche parte dell’America. Yes, dissi io, dopo una corsa a prendere il vocabolario monolingue che tuttora mi vuol bene (bene reciproco). You know, a heap of rubbish (il fatto che dopo anni ricordi l’esatto scambio di battute dovrebbe misurare la quantità di vergogna che provai, esattamente, a posteriori). Lui abbandonò la conversazione.
Un americano più paziente, però, un pomeriggio mi disse di segnarmi tre nomi che mi sarebbero certamente piaciuti. Erano i Belle & Sebastian, i Modest Mouse ed i Neutral Milk Hotel.
Ovunque mi trovo, anche adesso, un giro in un negozio del genere rappresenta una tappa obbligata. Tanto lo so che poi “succede qualcosa”. E succede sempre.
“Questa introduzione non serve a nulla se non a specificare il fattore della casualità. Entrare in un negozio di dischi e imbattersi in qualcosa che non fa altro che metterti curiosità e voglia di scommettere con te stesso: “Va bene, lo compro. Mi piacerà? Chissà. E se poi mi fa schifo? Ho solo buttato dieci euro ma ho comunque conosciuto qualcosa a cui forse non sarei mai arrivato.”
I Belle & Sebastian li avevo trovati per caso a Roma qualche mese prima, in una delle ore libere durante una gita (non andavo a Roma altrimenti: dal mio fazzoletto di provincia sono due ore e passa di pullman fino all’Anagnina, ed io ero molto pigro già all’epoca). Avevo trovato quel disco da Messaggerie Musicali – o almeno credo fosse MM. Ricordo che non avevo mai visto niente di così smisurato dedicato unicamente ai dischi; che c’era la possibilità di ascoltarne alcuni, evento che mi pareva inverosimile, e che sentivo che dovevo sanzionare la cosa in qualche modo compatibile col mio ristretto budget. Dei Belle & Sebastian avevo letto sul Mucchio, anche se non ricordavo bene a che proposito. La copertina era bella e il disco, a metà prezzo, lo comprai e lo ascoltai mezza volta, e non mi impressionò positivamente. Lo accantonai in un angolo dove rimase fino alla conversazione col giovane americano su Napster. Quindi, sentii per la prima volta, seriamente, If You’re Feeling Sinister. E.
Poco dopo, piccola città di provincia vide l’apertura di un nuovo negozio di dischi. Aveva una sezione di dischi usati, e questa era una cosa sconcertante in sé, ed anche se pagava la location con un’amplissima sezione metal aveva dischi che non avrei mai pensato di avere sottomano senza attendere il viaggio a Roma di Negoziante.
Soprattutto, aveva buona parte del catalogo Homesleep.
Di come l’ascolto ripetut(issim)o di Rise And Fall Of Academic Drifting abbia portato anni dopo all’incontro, per me infelice, con JR ho già detto altre volte (troppe) in sedi differenti, ma si sappia che la colpa è del Caso e della follia che aveva convinto quelle tre deliziose persone ad aprire un negozio così in mezzo al nulla. Chiuse in due o tre anni, ça va sans dire.
Insomma, avevo un sacco di cassette duplicate dagli amici di straforo, e quasi niente di originale.
Erano belli i tempi in cui ero piccolo io ed i cd si noleggiavano. Non c'erano nemmeno i masterizzatori (anzi no c'erano ma costavano cifre esorbitanti, e poi tanto il pc in casa non ce l'aveva praticamente nessuno, figuriamoci il masterizzatore – l'unico che io ricordi fortunato possessore di un masterizzatore era un mio amico che noleggiava i cd, li masterizzava e poi rivendeva le copie, ma ha dovuto smettere dopo che gli hanno bucato le gomme della macchina) e si passava tutto su musicassetta, resa sonora incerta ma almeno potevi continuare ad ascoltare anche dopo aver restituito il cd ed andava più che bene.
Io però nel frattempo avevo finito il liceo e mi ero spostato a Bologna.
In breve tempo ebbi modo di scoprire due cose ugualmente inverosimili: Bologna non aveva solo una biblioteca (paesello, all’epoca, non l’aveva ancora, o era in ristrutturazione perenne – parlo del 2002, non di epoche precedenti all’invenzione della stampa). E in quella biblioteca c’era una sezione di cd. Enorme.
Devo saltare, anche qui, il pesantissimo resoconto della prima (e unica, temo, finora) volta in cui ho stretto il Sussidiario fra le dita. Posso dire che ero sinceramente emozionato, e che già non si riversavano più i cd su cassetta, ma si estraevano i file sul pc.
Così, quando il coinquilino mi parlò della Phonoteca, cui già ero passato davanti un po’ di volte, rimuginando su cosa fosse (entrarci e chiedere mi pareva brutto), fu, comprensibilmente, l’ennesimo nuovo inizio per le nostre grame finanze da universitari fuori sede.
Mi sorprende il fatto che, se provo a concentrarmi, non mi viene in mente quali cd abbia preso in prestito lì. Credo fossimo, io e il coinquilino, perlomeno in fase post-rock. Ma non sarei pronto a giurarlo, e del resto non è un dato fondamentale.
Poco dopo, e siamo nel 2003, cominciai a leggere, oltre alle riviste, Ondarock e Scaruffi un paio di blog che parlavano di musica: Polaroid ed Inkiostro. Da lì iniziai a leggerne molti di più, fino alla malsana idea di scriverne uno, poi fortunatamente chiuso per manifesta inutilità. Un anno dopo, in un clamoroso impeto di socialità, decisi di attaccare bottone con una ragazza su un autobus diretto verso l’Estragon (concerto – ed elogio dei latticini – di Damien Rice), che avrei incontrato di nuovo la settimana successiva andando al Covo, e senza la cui esistenza oggi la mia vita, per una serie di buffe e fortunose coincidenze, non sarebbe neanche lontanamente simile a quella che è (e no, non siamo mai stati insieme)(spiace, eh. Sarebbe stato un bel twist, così fa davvero troppo Brizzi).
Ho comperato degli album tramite servizi online ma non me li sono mai goduti pienamente. ho ricomprato gli stessi titoli su cd e me li sono gustati meglio. niente cagate tipo “l’mp3 degrada la qualità audio” o cose simili, è proprio un feticismo verso l’oggetto disco/cd/cassetta.
Voglio vederli, i miei dischi. Voglio accumularli in pile traballanti, di fianco a divano, per poi metterli su seguendo sentieri di passioni e ricordi. Perché dovrebbe essere meglio avere dei fantasmini digitali, sperduti nel computer?
L’impulso che muove all’acquisto è il desiderio e non il bisogno. […] voglio il supporto, voglio il vinile, ma di fatto la musica e il supporto su cui viene registrata (e venduta) sono due cose separate. Voglio il supporto fisico anche se non ne avrei bisogno! […]Quello che devi chiederti è: quanto sono disposto a pagare per il valore aggiunto di cui sopra?
Il supporto è solo il supporto e alle volte – per questioni connesse a quell’innato bisogno di poesia e di possesso materiale che ci distingue dagli automi – può essere irrinunciabile.
La musica è il medium che, più di ogni altro, non risente dell'abbandono del supporto fisico.
E non venitemi a dire che un cd si sente meglio di un file digitale. La qualità del file digitale dipende dalla compressione e la rete mi permette di trovare file non compressi che hanno una resa audio superiore a quella dei cd. Fermo restando che io, comunque, non ho un impianto in grado di valorizzare questo aspetto (e dubito che ce l'abbia la maggior parte di voi) e non ho l'orecchio abbastanza affinato per capire appieno la differenza di qualità.
Non continuerò con l’aneddotica, anche perché ho l’impressione che qualsiasi potenziale lettore sia già stramazzato al suolo esanime. Se qualcuno fosse sopravvissuto, penso sia chiaro il punto a cui miravo: i negozi di dischi non sono l’unica via per conoscere ed amare la musica, né la migliore.
Io i negozi, specie quelli piccoli, li ho sempre frequentati poco. Sono sempre stato troppo timido per parlare con i commessi, senza contare che, ora che ci penso, per un paio d’anni ha lavorato come commessa alla Ricordi una mia amica bella di una bellezza imbarazzante, con cui per anni ho sognato invano di farmi avanti e che tampinavo farfugliando da piccolo stalker in erba. Tanto sarebbe stato un fallimento clamoroso. Ma dicevo?
Ah, sì. Io i negozi, specie quelli piccoli, li ho sempre considerati un fastidio, in provincia, per la maggiorazione economica e cronologica su ogni singolo cd che esulasse dal ristrettissimo catalogo posseduto, e un percorso obbligato, a Bologna, per acquistare i dischi. Non ho mai avuto con nessun negozio/negoziante nessun rapporto di confidenza, di amicizia, di mutua dipendenza. Il paragone di Enzo con il Bar Sport si sovrappone ad un’immagine che mi era già venuta in mente: nel Bar Sport, le paste, fanno schifo (come il vino all’etanolo che ti offrono i vecchi sottolineando che è fatto in casa: è velenoso, quel vino). E la mitizzazione del romanticismo a scapito della convenienza (o della qualità, a seconda dell’esempio) non mi ha mai convinto del tutto.
I consigli, le discussioni, le scoperte su un disco, le ho sempre fatte o lette altrove: davanti a una birra con gli amici, leggendo forum su internet, leggendo blog e webzine, leggendo giornali, leggendo giornali mentre si beve una birra con un blogger che nel frattempo sta controllando internet (come se fosse uno scenario inverosimile). E oggi sui socialcosi, come chiunque utilizzi internet con un minimo sindacale di dimestichezza.
Quando ho avuto la possibilità di acquistare lo stesso cd ad un prezzo minore da Ricordi, o alla Virgin, o da Nannucci, che piccolo non era, piuttosto che da Disco d'oro o da Underground, da quando c’è la possibilità di farlo su internet ad un prezzo spesso enormemente più basso del prezzo del piccolo negozio, io l’ho fatto. Perché i miei principi più idealistici, temo, non valevano i soldi del mio pranzo (pranzo a cui rinunciavo comunque se volevo comprare chilate di cd, libri e dvd E uscire la sera). Potevo comprare di meno, ma comprare meglio? Probabilmente sì; ma non l’ho fatto, e non sono sicuro di rimpiangerlo.
E non prendiamoci in giro: la possibilità di procurarsi musica gratuitamente, in maniera legale o meno, è una rivoluzione dei costumi con cui tutti ci siamo confrontati, a cui tutti ci siamo abituati. Persino i Metallica si sono messi l’anima in pace.
Sono tornato in questo vecchio negozio per ritrovare la magia del comprare i dischi "veri" ma l'unica verità è che non c'è nessuna magia. Non c'è mai stata. Era solo una mancanza di scelta che ha generato un'abitudine a cui ho legato dei ricordi piacevoli perché connessi alla scoperta e all'ascolto della musica. Il piacere non è mai derivato dall'oggetto ma dal contenuto.
Oppure ecco, prendo molte copie digitali di valutazione (ehm, scaric… coff) ma poi compro anche tanto. Colpevolmente via internet? Oddio, fosse per me comprerei anche la benzina via internet. Oppure finisco a comprare molto più all'estero sto notando: principalmente per il prezzo.
Da svariati anni il 95% dei dischi che entrano in casa mia sono portati da un postino o da un corriere. […] Perchè praticamente non ci sono più negozi di dischi decenti a Verona e dintorni! […]Il Male è la Fnac, che ha fatto chiudere praticamente tutti i negozi di Verona facendo dei prezzi incredibili nei primi due anni di vita (novità a 11/12 euro, offertacce a 6 euro; credo di aver comprato più dischi in quei due anni che in tutta la mia vita, se parliamo di acquisti effettuati in negozio).
Cercate di dimenticare per un attimo quello a cui siete abituati, e pensateci: un bene immateriale come la musica è fatto apposta per essere acquistato online, anche per chi come noi non può fare a meno dell’oggetto disco. E’ la piattaforma più completa per avere un assaggio di cosa si sta acquistando, prezzi onesti che tagliano le intermediazioni inutili, disponibilità illimitata che rispecchia la sempre più sterminata produzione discografica.
Con questo non voglio affermare che sia meglio così. Le sterminate discografie ascoltate solo per un decimo, i dischi sentiti mezza volta distrattamente, per motivi analoghi e paralleli l’inaffrontabile offerta di album potenzialmente interessanti sono tare negative dello stesso sistema, risvolti della medaglia.
Ed il minimo che una persona pragmatica e consapevole può fare è comprare, se non tutta la musica potenzialmente interessante, almeno quella che gradisce davvero e che ha già apprezzato: su internet, in un negozio di una qualsiasi dimensione, ai banchetti dopo i concerti. Che se gli artisti dovessero solo perderci denaro, con quello che fanno (e la stragrande maggioranza ci va sì e no in pari, con i frutti del proprio lavoro intellettuale), sarebbe difficile capire cosa li convinca a continuare.
I piccoli negozi di dischi sono posti suggestivi, spesso tenute da persone deliziose, sinceramente appassionate al loro mestiere. Però soffrono una crisi strutturale dovuta all’impietoso avanzare della tecnologia, e (dio mi perdoni la demagogia) non mi pare esista la giornata del calzolaio.
Per difendere questa suggestione, legata a doppio filo ad uno dei lati più feticistici, ma contemporaneamente più irrazionalmente irresistibili, che un appassionato di musica possa avere – cioè il bisogno di un supporto fisico, ottenuto da una persona fisica, possibilmente in circostanze che creino quel senso di condivisione d’élite proprio di ogni piccolo gruppo ed accrescano il valore immateriale di quell’oggetto che si sta comprando (e magari regalino anche degli aneddoti, perché chi vive di musica vive d’emozioni e generalmente li adora, gli aneddoti) -, oggi si festeggia il Record Store Day.
In molti negozi di dischi si tengono concerti e showcase vari, si vendono uscite speciali e ristampe (elenchi qui e qui). È comunque una cosa bella: la festa della mamma non salvaguardia il ruolo della mamma né ne cambia lo status, ma a lei fa piacere che io le faccia gli auguri ed io mi sento più contento (e mia madre non stampa edizioni limitate).
Approfittatene, se vi va.
Il fatto è che andare a cercare negli scaffali polverosi di cd o vinili […] ci ha fatto, e continua, a farci stare bene. E solo per questo che continuiamo a farlo.
I dischi e gli strumenti musicali erano gli unici modi per fare l’amore con la musica. Ripeto: un rapporto carnale, vero e tangibile. Quando provi questa intima passione è impossibile che tu riesca a liberartene.
Il nuovo non esiste, è solo la forma più mascherata della nostalgia dei clienti, né io negherò il loro diritto inalienabile alla nostalgia. Però non sono un cliente. E’ da ben prima di lavorare qui che non compro musica, e continuerò a non comprarla dopo che avrò finito di lavorare qui.
Signori, è finita, ma è stato un onore servire per voi.
P.S.
Ci sono tre belle interviste ed una non-intervista sull’argomento: Enzo con il titolare di Play Loud, Paolo con Alessandro Gallicchio del Black Candy Store, Giulia con Marco di Nordovest e Federico. Dopo un post in cui sono riuscito a non citare Alta Fedeltà, gli Offlaga di Tono Metallico Standard e L’ultimo disco dei Mohicani (ricordato persino da Repubblica, wow) il minimo mi sembra segnalare un libro sui negozi di dischi indipendenti per Arcana ed il fatto che Letizia Bognanni mette in free download il suo, di argomento affine, qui. Voleste altri media, qui (scoperto via mytaperecorder) c’è il trailer di un film che pare interessante, qui il reportage esclusivo per Vitaminic opera dell’insonnia del beneamatissimo Daniele Piovino e qui l’odierna colonna sonora a tema proposta dai 400 calci.
Come già sapete, sono un devoto fan del social network di condivisione di foto «truccate» via iPhone Instagram e del miracoloso equilibrio tra virtuosismo e serendipità che riesce a incarnare. Ma come scrivevo su twitter qualche mese fa, dopo essersi abituati a immortalare un momento dal punto di vista visivo, ti viene subito voglia di poterlo fare anche dal punto di vista musicale o sonoro. E siccome «There's an app for that», è qui che entra in gioco il nuovo Soundtracking.
Frutto della stessa idea di mash-up di diverse applicazioni di successo (se Instagram era Hipstamatic + Twitter + Foursquare, Soundtracking è Instagram + Shazam + Twitter + Foursquare), Soundtracking consente di condividere in tempo reale una foto ma anche un collegamento a un brano audio (preso dall'app iPod, riconosciuto in tempo reale o semplicemente ricercato a mano), immediatamente ascoltabile da parte dei tuoi follower che ovviamente possono laicarlo e/o commentarlo. L'App è appena nata ed è chiaramente acerba, ma l'idea è buona e gli sviluppi sono promettenti. Se i suoi sviluppatori lavorano per aggiungere alcune funzioni abbastanza fondamentali, e sostituiscono il collegamento a iTunes con quello con altre librerie musicali gratuite e con canzoni intere (basterebbe anche, che ne so, YouTube) e se riescono a tirare su una community numerosa come quella di Instagram, il successo è assicurato. Per ora non sho trovato nessuno da followare (iscrivetevi! followatemi! ovviamente il mo nome è @inkiostro), ma se vi conosco ora andrete tutti a iscrivervi. E secondo me fate bene.
Il più celebre gioco per App Store diventa un gioco da tavolo.
[io però continuo a preferire Cut the rope]
Se avete un iPhone conoscete già molto bene la funzione di autocorrezione e le sue temibili conseguenze, al cui confronto gli indimenticati T9onimi impallidiscono e vanno a nascondersi in un angolo.
Recentemente Funny or die ha compilato i The 11 Most Amazing Autocorrect Fails, basandosi sulla raccolta quotidiana effettuata da DamnYouAutocorrect.Com. Non so se sono solo io, ma leggendoli mi stavo quasi soffocando dalle risate.
Proprio nei giorni in cui la celeberrima Hipstamatic viene nominata (meritatamente, direi) la App of the year e mentre tutti parlano della (effettivamente fighissima, quando funziona) Viber, la vera Mobile app to have (per ora solo per iPhone; niente Android, Blackberry & co) è diventata indubbiamente Instagram.
Sorta di ibrido tra Twitter (da cui prende la timeline degli aggiornamenti e la struttura di social network con follower e following), Foursquare (a cui si connette, se lo si vuole, per la geolocalizzazione) e, per l'appunto, Hipstamatic (di cui clona l'applicazione di filtri di stile analogico alle foto), Instagram non inventa niente ma compone in forma perfetta una serie di funzionalità legate alla produzione e alla condivisione social di foto che riempe un vuoto e diventa più della somma delle sue parti. In un mondo in cui Twitter e affini spopolano, una piattaforma che consente di condividere con i propri amici una sorta di status fotografico (in modo incommensurabilmente più funzionale di Twitpic e affini), consentendo a chiunque, grazie ai filtri, di scattare foto un più interessanti di quelle normalmente prodotte con uno smartphone e spostando così il focus dalle mere velleità di testimonianza e vanto al tentativo di produrre foto in qualche modo belle e significative, è davvero l'uovo di Colombo.
E infatti pare che gli iscritti siano già intorno al milione, con una nutrita compagine italiana e un altissimo tasso di additività. A me per il momento piace e diverte molto (mi ci trovate ovviamente con il nome inkiostro; metterei il link al mio profilo, ma non mi risulta esista un'interfaccia web quindi se non avete un iPhone dovete limitarvi a immaginare le foto che ho caricato. Settario, lo so) e ho il sospetto che non me ne stancherò tanto presto.
End Call Decal fo iPhone 4. Molto meglio dei cerotti.
[Update: prima era solo un concept, ora lo vendono davvero]
Forse è un segno del destino. Ero lì lì per porre fine alla mia pluriennale diffidenza per la Apple, di cui non ho mai posseduto alcun computer o gadget, e, sulla scorta della necessità di cambiare telefono e operatore, a cedere alle unanimi lodi da sempre cantate dai possessori dell'iPhone quando ecco che esce l'iPhone 4 e a causa del noto problema dell'antenna le lodi si trasformano in mugugno. Stavo aspettando l'uscita in Italia (appena una o due settimane da ora, dicono i ben informati) quando ci si è messo anche l'Altroconsumo americano a sancire definitivamente la gravità del malfunzionamento e a sconsigliarne l'acquisto. Ora viene ventilato nientemeno che il ritiro dal mercato e la sostituzione di tutti gli iPhone 4, con costi allucinanti e tempi tutti da capire. Per tacere del danno di immagine della Apple (che però, a ben vedere, è solo un problema suo) e delle conseguenze sul mondo iOS nel lungo periodo.
Nel mentre io che faccio? Aspetto e resisto col mio paleolitico Nokia? Ripiego su un mai così economico iPhone 3GS? Lascio perdere e inizio a studiarmi il mondo Android? O cedo al buon senso e mi compro un telefono che non faccia altro che telefonare, chè gli smartphone paiono avere quasi solo conseguenze nefaste su tutti coloro che ne possiedono uno?
Ulteriori dettagli su Attivissimo e Il Post.
[Where they meet, dal solito geniale Techno Tuesday]
Anche se meno divertente del video del micino, ecco l'esperimento cinofilo del test dell'iPad. Ne risulta abbastanza chiaramente la superiorità del gatto in quanto a curiosità e anche – passatemi l'espressione – a manualità. Il cane sembra utilizzare solo il naso, ma forse è dovuto al tipo di razza non propriamente "slanciata". Ma la vera domanda è…ci sarà Apple dietro questi video? Non mi stupirebbe!
Via | Mashable
[almeno finchè il gatto non graffia irrimediabilmente lo schermo]
Come da tradizione, questa settimana Will it blend? se l'è presa con l'iPad.
[previously: Pensiero stupendo /1 (iPod, will it blend?), Pensiero stupendo /2 (iPhone, will it blend?), Pensiero stupendo /3 (deep fried iPod)]
Tempo fa (via Onigiri) mi sono imbattuto nel video di presentazione dello straordinario Hipster Pod:
A parte il video in sè (che potreste trovare o non trovare divertente), è curioso che per indicare musica hipster si faccia ricorso a mostri sacri ormai riconosciuti da tutti come i Velvet Underground o i Sonic Youth o comunque a band non esattamente di primo pelo (e non certo modaiole) come gli Yo la Tengo. Se il video l'avessi fatto io, al tizio avrei fatto ascoltare Chunk of change, l'EP d'esordio dei Passion Pit.
Già incensati dai blog di mezzo mondo e (e già comparsi su queste pagine all'interno del report della CMJ Marathon di Matte), come da copione i Passion Pit non hanno ancora pubblicato un disco completo, e godono di una gloria effimera basata in larga parte su quello che potrebbero fare ma non hanno ancora fatto. Esattamente come succede a tutta la vera musica hipster, che nella sua perenne ricerca di anticipare tutti vive sempre in un futuro che non deve accadere mai.
Non che i Passion Pit non siano bravi; tutt'altro. Il loro sound flirta ora con l'indietronica dei Postal Service o degli Hot Chip ora con certo elettropop da classifica, con abbondanza di falsetti stralunati, campionamenti bizzarri e melodie pronte a stamparsi nella testa. Ottimi pezzi, per lo più, da godersi senza chiedersi se i nostri diventeranno grandi oppure scompariranno dopodomani. L'importante è che piacciono alle ragazze, e che quindi sull'Hipster Pod farebbero un figurone.
Passion Pit – Sleepyhead (MP3)
Passion Pit – Smile upon me (MP3)