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domenica, 14/09/2003

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PALaZ meets inkiostro #2: 10 anni da In Utero
[Inkiostro ospita di nuovo il contributo di PALaZ, in occasione del decennale dell’uscita di uno dei più grandi dischi rock degli anni ’90 -nonchè testamento artistico di Kurt Cobain-: In Utero dei Nirvana.]

quando conobbi kurt cobain lui era già morto. e questo dice già tutto su certe impazienze. anzi, vedevo la faccia luttata di un mio amico, un professore appoggiava una mano di consolazione sulla spalla. ma oggi non si commemora lui ma in utero, che è comunque lui. l’ho preso come ascolto questa sera, l’ho lasciato gocciolare a mo’ di patera pertusa, una libagione mio caro. non lo sto sentendo neanche, mi passa dietro il collo come nessunissima leccata, lingua inaridita, forse perchè troppo spesso abusata.

il 1993 è successo dopo, alcuni anni dopo, io l’ho ritrovato dopo, lì dentro, qui dentro. mi ricordo una cassetta registrata male, come tutte le cassette registrate, ma lì dentro il disturbo si accordava alla musica come sua migliore compagnia. la musica un tempo suonava così, non suoni lisci e levigati, ma tutto il rigetto magnetico che si disperdeva nell’aria veniva a tappeto. fallo adesso, dai.

sabato in un locale tutto espressione come una vetrina di cambio stagione. gente pulita, scocca la mezzanotte e il giorno dopo e 10 anni dopo. nessuno che si ricordi, io non sono come loro ma posso fare finta. faccio finta di niente, ce ne siamo andati. li ho disprezzati.

il 1993 è durato tantissimo, sulle dita, su quattro accordi messi in croce come lezione per imparare a suonare. spingo play poi rewind poi play poi rewind poi play poi rewind, poi mi accontento, spingo play, perchè già c’ero arrivato.

in utero, inutero, in ut ero, dentro come sarò? poi play. non ho mai avuto i pantaloni stracciati, non ne ho avuto il tempo, non li rimpiango, lo erano dentro.

ecco le parole pertinenti, mi sono svegliato da solo, senza che nessuno lo facesse per me, era già mattina inoltrata, era una bella giornata, avevo messo su un film, ne ho visto metà e mi sono stancato, ho tutte le videocassette viste a metà, ho dato da mangiare a me e al cane, prima al cane, poi il pomeriggio è diventato uno strazio, tra televisione e morsi dati per la fame che non si spegneva, era più la noia che il pranzo scarso, era un pomeriggio intorno al tavolo, ero solo come appena svegliato, neanche la forza di prendere una parola pertinente, fino a sera, è tornato qualcuno, potevo tornare a nascondermi e il mio letto che fa più spigoli che buon riposo, ho cambiato canale, ho detto che ci avrei pensato domani, volevo una giornata delle mie ed è stata così, proprio.

insomma 10 anni fa, esce in utero (che già è un controsenso), è vero, non è mai uscito. è dentro.



domenica, 13/07/2003

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Venerdì, Radiohead live@Ferrara
2+2=4; l’esempio calza. non aspettatevi il 5 dalle addizioni. insomma c’era un’afa cristallina, poderosa e carnivora, di quelle labbra che il solo vociare falsettato credevano potesse dissipare. una somma di pelli filtrate attraverso lo stesso strato di attesa, ecco che si inabissa la bassa marea seduta, tutti si alzano e spopolano la posizione acquisita, si protendeno verso l’altare, ara dove si consuma il sacrificio, il loro, il nostro. torno ancora sul cielo acerbo di questa stagione ma già morso, miracolo di ingegneria genetica. torno ancora sulle magliette direzionali con la scritta RADIOHEAD, radioteste sintonizzate sull’unica onda magnetica. la dolorosa portata anticipale serve a rendere buono il piatto successivo. avete vene abbastanza capienti anche per i FLOW? ma dite davvero? il calore si addossa sulle spalle, svenire per la metà giusta. ok. crescono sul palco-scenico, molto scenico, molta scena. ma i brividi dove sono? il mio vicino di sudore si dimena come autoerotismo per la testadicazzo che è, RADIOCUMSHOT precoce, la mia segugia si fa festone delle mie ossa e grida un festival in stereofonia ma della radio sbagliata, stonante, sbadigliato le concedo uno sputo di dissapore. cambio onda e percezione, mi lego alla prossima corrente. intanto sento le caviglie bagnare il disagio, mi inietta addosso il senso di impazienza, quale sarà il confine di questo mare e dove mi lasceranno naufragare? il cielo ha un fresco invito scritto tra le stelle rimaste, poche, umide e anche loro insensate per qualunque occasione, torno il mio collo abituale, il mio orizzonte frastagliato e non mi reggono le punte come ad una ballerina. il mio vicino di stato mi pare viaggiare e lidi da me non trovati, recepisco il concetto, non recepisco il concerto. non lo so, ho delle emozioni appena accennate, è tutto il resto che talmente travolge che tanto spazio mi viene asportato, le luci più che altro sono ricettacoli per chi non sa fare bene il pellegrino di queste occasioni, il turista. ecco il turista, the tourist e lento mi spinge controcorrente, mi nascondo lontano in una piazza dove spero meno abitata, già è difficile posare il passo dietro l’alro, ho certi sguardi di malridotto che mi rifletto nelle pupille altrui. acqua per favore, e sorprendo gli ultimi miraggi lontano, da lontano. quasi l’appena è migliore e solfeggia fiati di cieli più bassi ed estasiate. la gente raccoglie e schiaccia il sudore attraverso un rumore e germoglia braccia come ovazione. io sono sradicato dalle mie ragioni, ho il gusto solo quando ne sento davvero il bisogno, e madido e il mio disco funziona meglio nel piccolo raccoglimento della camera, le sensazioni sgorgano come belle presenze, più tattili che altrove, funziona meglio il mio disco acceso e suonato in un borgo svenuto nella mia camera, ai confini col lenzuolo, occhi sospesi, denti fieri e labbra seguono il movimento che suggerisce l’atmosfera creata, tersa e filtra tutto il bagliore, altrove non si può, ma altri possono e non mi va di discriminare.

mi sono introdotto, in questo pomeriggio dopo il concerto. inkiostro si è concesso un riposo, io gli ho rubato momentaneamente il posto. PALaZ