Benvenuti nel Garden State
Forse potrà non interessarvi, ma negli Stati Uniti (nè altrove, del resto) non esiste una città che si chiama Garden State. Non esiste una città, non esiste un paese, non esiste una località. Esiste uno stato, soprannominato Garden State, lo «stato giardino», e questo stato è il New Jersey. Avete presente? Quello che viene sempre descritto come lo stato un po’ inutile alle porte di New York, quello di Kevin Smith, quello di Bruce Springsteen, quello dove qualche anno fa ho passato un paio di settimane e che alla fine tanto male proprio non è. Quello. Il Garden State, quindi, come dice il nome stesso è uno stato e non una città; qualcuno avrebbe dovuto dirlo agli adattatori italiani di Garden State, uno dei film culto del cinema indipendente americano della scorsa stagione, che uscirà nei nostri cinema tra una settimana con il peculiare titolo di La mia vita a Garden State. Come dire, La mia vita a Stato Giardino. O, per dire, La mia vita a Terra dei cachi. Chè ogni volta dimostriamo di esserlo.
Si parla un gran bene di Garden State, in giro. Chi l’ha visto quando è uscito negli USA ne dice meraviglie da mesi, in rete è trattato come un film di culto, e grazie alla sua ottima colonna sonora (Iron and wine, The shins, Nick Drake, Zero7 e altri) che ha vinto persino il grammy come miglior soundtrack dell’anno, e grazie a un paio di battute sopra le righe contenute nella pellicola (Natalie Portman che ti dice che gli Shins cambieranno la tua vita fa un certo effetto, devo dire) il film è diventantato all’istante una sorta di film feticcio per l’indiemondo americano. Il fatto che sia scritto, diretto e interpretato dal bravissimo Zach Braff, già protagonista del geniale Scrubs, e che dentro ci siano attori del calibro di Natalie Portman e Ian Holm pare un’ulteriore garanzia di qualità.
Le aspettative troppo alte però sono sempre un dramma, si sa. E così, quando qualche giorno fa mi sono trovato a guardare il film, la delusione è stata cocente. Non è affatto un brutto film, chiariamoci; solo che l’understatement e il registro volutamente sotto tono che Braff adotta finisce per farlo passare un po’ inosservato, uno di quei film che non lasciano mai veramente il segno perchè sempre leggermente inferiori a quello che vorrebbero essere. Poi ci si ripensa, ed effettivamente alcune scene sono letteralmente memorabili (quella da cui è tratta la locandina, soprattutto), e alcuni passaggi intimamente e profondamente indie nel modo di rapportarsi alla vita e a se stessi, e il motivo di tanto entusiasmo non pare così peregrino. E’ una coesione equilibrata e convincente, a mancare.
Come ho detto, come al solito probabilmente è tutta colpa delle aspettative. Se con questo post sono riuscito ad abbassare un po’ le vostre, quindi, è già un buon risultato. Dal prossimo weekend andate al cinema e godetevi il film. Poi mi direte.
[e al fatto che adesso -come scrive sul suo blog– Zach Braff sta lavorando al remake americano de L’ultimo bacio di Muccino non pensiamoci, per il momento]