I should be so lucky
La definizione che descrive la musica dei Maritime sul flyer del Covo, dove suoneranno venerdì, recita «indiepostemo». Roba da far ghignare i talebani dei generi musicali e da far sorridere anche quelli più scafati che, pure, ottengono da una definizione simile coordinate piuttosto precise e neanche troppo fuorvianti.
Il problema è che, ovviamente, indiepostemo non vuol dire niente. Indie, lo sappiamo, è ormai arrivato a definire più o meno qualunque cosa e il suo contrario. Post (ancora più di avant) è il prefisso preferito di chi ha poca fantasia nel descrivere cose che non ha mai sentito. E emo, beh, l’emo non esiste; non in questa accezione, almeno. Negli States lo si usa per definire band che hanno ben poco di diverso da tutte le altre, qua da noi lo si usa spesso come contrazione di emo-core per descrivere gente che sul palco emette urla lancinanti e si contorce stracciandosi le vesti, ma se per emo si intende emotivo allora è ovvio che si tratta di un’aggiunta davvero inutile. Tutta la buona musica è inevitabilmente emotiva; anche quando, per contrario, gioca ad essere fredda e asettica, oppure ironica e superficiale. In particolar modo il pop. Il pop, se non è emo, non è pop. E i Maritime sono un grande gruppo pop, quindi non serve dire altro.
We, the vehicles è la loro seconda fatica (dopo quel Glassfloor da cui, godendosi il senso di colpa, qualcuno si è fatto conquistare la scorsa estate), ed è un disco che lascia la sua impronta. Esce in un anno in cui molte delle imminenti top 10 dei dischi dell’anno conterranno sicuramente dischi pop per cui non sono necessari prefissi o suffissi di sorta (per dire, le opere di Stars, Magic Numbers, The boy least likely to, Lucksmiths), e in mezzo a queste si faranno sicuramente spazio. A poco serve descriverne i ritornelli killer, i fraseggi di chitarra puliti ed essenziali e la micidiale voce spugnosa di Davey Von Bohlen, come serve a poco raccomandarlo come un disco perfetto tanto per una mattina di sole quanto per un tardo pomeriggio stanco e ripiegato su di sè. Spiegare il pop è una missione folle, visto che il pop, al suo meglio, ha il suo pregio proprio nella mancata necessità di essere spiegato. E allora hai voglia a magnificare il benvenuto Ballads laught at everyone di Calm, a spiegare i tentativi di interrompere il repeat compulsivo di Tearing up the oxygen, a giustificare il contagioso incedere in levare di Parade of punk-rock t-shirts, e ad illustrare le connotazioni couplandiane evocate dai raccordi austradali di German Engeneering, non serve a niente. Serve solo sospendere il giudizio e spingere play. Il resto viene da sè. E non c’è prefisso o suffisso che tenga.