Non ricordo la prima volta che l’ho letto. Doveva essere 5 o 6 anni fa, forse su un articolo di Wired; «Il blog è morto», diceva, spiegando come la moda di queste goffe piattaforme per pubblicare online i propri pensieri sarebbe presto finita. Dopo un po’ ne ho aperto uno, ed in Italia ce n’era appena qualche centinaio. Ora, solo qua, i blog sono circa mezzo milione.
Con gli anni, come è ovvio, le cose sono un po’ cambiate. Rispetto ad allora, oggi ciascuno ha un ventaglio di scelte molto più ampio per decidere che forma dare alla propria presenza online. Si può decidere di esserci anche solo con un volto, qualche parola e una rete di (presunte) amicizie virtuali, si può essere presenti con i propri gusti e consumi (musicali, letterari, cinematografici), si può comunicare unicamente in forma di immagini (ci sono degli account di Flickr così curati e aggiornati che valgono più di tante parole) o di video, oppure scegliere qualche piattaforma che consente di inviare aggiornamenti telegrafici sul modo in cui si passano le giornate e sui pensieri estemporanei che ti capitano. Se hai molto tempo libero, online puoi pure viverci in 3D.
Ci sono un sacco di modi di essere online, e praticamente tutti sono nati dopo il boom dei blog. Per eroderne la quota di utenti, imbrigliarla su piattaforme proprietarie (da rivendere poi a peso d’oro alla corporation di turno) e incantarla con la semplicità d’uso, il carattere distintivo e l’automatismo che un blog, nella sua versatilità, non può e non vuole avere.
Negli anni abbiamo osservato curiosi i collezionisti di account, spinti da un mix di completismo e paura di restare indietro, e ci siamo divertiti a guardare i tanti che passano da una forma all’altra, senza requie. Nascono blogger, si convertono a flickr, provano myspace ma poi no, hanno una breve parentesi come podcaster ma poi passano a twitter, ne capiscono la futilità e si buttano sul tumblr, e chissà cosa apre domani, loro sono pronti. Studiare questa frenetica ricerca della forma perfetta è divertente e istruttivo.
E’ divertente e istruttivo perchè dice tanto di noi, e del nostro modo di attribuire agli artefatti cognitivi che noi stessi creiamo dei significati che loro, di per sè, non avrebbero neanche per sbaglio. E’ interessante notare come sia più una ricerca di vincoli che di libertà, quella che ci guida, quasi che dovessimo farci dettare cosa fare principalmente dalle cose che non possiamo fare. Ci angoscia così tanto la responsabilità di avere un po’ di libertà?
Ultimamente va forte Tumblr, il dimesso mini-blog senza grafica, link e commenti. C’è chi ne apre uno come blocco di appunti semi-pubblico e sempre online, chi ne apprezza la possibilità di monologare senza il rischio di essere smentit da repliche o dal contesto, chi ci si inventa agenzia di stampa di virgolettati che non interessano a nessuno (producendosi nello stesso esercizio di distorsione della parole altrui tipico del pessimo giornalismo di cui non fa che lamentarsi), chi lo usa come minimale valvola di sfogo dalla propria identità online ormai diventata troppo ingombrante e chi, semplicemente, come archivio di quick link che non vada perso nel mare dei bit. E’ curioso notare come siano i vincoli e non le nuove potenzialità a delinearsi come una novità liberatoria.
Ogni anno spunta fuori la nuova piattaforma che ucciderà i blog. Dalla sua nascita li danno per spacciati, questi innocui siti gestiti da semplici CMS a ordinamento cronologico inverso, che ad alto livello diventano quasi dei giornali, a basso livello possono essere poco più che una serie di frasette svagate, che possono diventare affollati come forum, veloci come chat, descrivere il loro autore meglio di qualunque diario, svelarne e articolarne i gusti come neanche nei sogni del più fantasioso addetto marketing, eppure tecnologicamente rimangono più o meno gli stessi che erano quando sono nati.
La forma perfetta, per definizione, non esiste. Provate, però, a trovarne un’altra che le contenga (quasi) tutte, nello stesso modo disinvolto in cui ci riesce una cara vecchia piattaforma di blogging. La risposta, piuttosto, è un’altra: volete essere definiti da dei limiti, oppure da delle potenzialità?