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lunedì, 28/12/2009

Pop-up Pong!

Tornato a casa ieri sera dopo l’inevitabile Natale dai miei, in una Bologna fredda e un po’ desolata (resa ancor più gradevole dal clima artico dentro casa causato dal riscaldamento rimasto spento), ho passato le ultime ore delle ferie più corte della storia a giocare a Browser Pong, versione fedele e ridicolmente nerd (è interamente costituita di finestre pop-up, realizzate in javascript e HTML5) del grande pioniere dei videogame.

Ovviamente funziona solo su browser recenti, ma per chi con queste tecnologie ha a che fare quotidianamente e più o meno sa come funzionano si tratta di un esperienza quasi pornografica. Almeno finchè non si scopre che le finestre sono ridimensionabili e che quindi barare è a dir poco elementare. Quindi, non meno divertente.

 

giovedì, 24/12/2009

Merry Christmas after all

 

Crocodiles + Dum Dum Girls – Merry Christmas baby (please don’t die) (MP3)

 

 

lunedì, 21/12/2009

Campane rotte

Mi aspettavo qualcosa di diverso e -forse- di migliore dalla collaborazione tra il premiato produttore Danger Mouse (già super-star del bastard pop con il Grey Album, deus ex machina degli Gnarls Barkley e produttore per Gorillaz, Beck, Sparklehorse, Rapture e via andare) e James Mercer (voce, autore e ora più o meno unico titolare degli indie-blockbuster The Shins) sotto il nome Broken Bells.

Il singolo The High Road (che precede il disco in uscita a Marzo) è stato appena diffuso in rete, e devo dire che dopo un paio di ascolti non sono particolarmente impressionato. I suoni sono perfetti e lo stile non si allontana troppo dalle cose più laid back dei Gorillaz con la strofa di una delle ballad di Chutes too narrow, ma mi pare mancare la zampata che lascia il segno (e il ritornello è davvero brutto). Voi che dite?

 

 

Broken Bells – The high road (MP3)

 

 

venerdì, 18/12/2009

E tutto quello che mi sento di dire oggi è

 

Spingete Play, è un ordine.

 

 

Walt Ribeiro’s OrchestraPoker face (instrumental orchestra version) (MP3)

 

 

mercoledì, 16/12/2009

Avete mai desiderato di avere di nuovo 11 anni?

Avete mai desiderato di avere di nuovo 11 anni?

Io mai, lo confesso. Le scuole medie di solito sono un periodo tutt’altro che piacevole: finita la spensieratezza delle elementari e non ancora imboccata la selvatica esplorazione del mondo adolescenziale, per una manciata di anni si è intrappolati in una terra di mezzo in cui non ci sono coordinate sicure e in cui ciascuno va alla sua velocità. Io non ricordo quasi niente dei miei 11 anni, se non i pomeriggi a leggere Lo Hobbit e Il Signore degli anelli e a registrare mostruose compilation di canzoni dalle radio locali con il radiolone rosso di mia sorella, mentre uno dopo l’altro i miei amici delle elementari tutto d’un colpo diventavano bulletti da bar e smettevano di trovare interessanti i Lego con cui io, imperterrito, continuavo un po’ colpevolmente a giocare.

Probabilmente è uno dei pochi periodi della mia vita che non ho mai desiderato di rivivere. Almeno fino a un paio di giorni fa, quando ho letto Facciamo un videogioco!.

 

Facciamo un videogioco! è il primo romanzo di Ivan Venturi, illustrato da Francesco Mattioli e edito da GradoZero Edizioni (un nome che dovrebbe dire qualcosa a più di uno di voi, visto che un suo 50% ha scritto varie volte  su queste pagine). E’ un romanzo per ragazzi («a partire da 9 anni», recita la quarta di copertina), un genere che normalmente fa fuggire a gambe levate qualunque adulto che non abbia figli in età scolare, e che personalmente non frequento appunto da quegli anni. Quando ho saputo che GradoZero avrebbe pubblicato un romanzo per ragazzi dedicato al mondo dei videogiochi ho pensato che le ragazze avessero un gran coraggio, data la nota difficoltà di rendere per iscritto (quasi) tutte le tematiche tecnologiche diverse dalle visioni di fantascienza e cyberpunk. Quando ho saputo che il libro non parlava solo di giocare ai videogiochi ma addirittura di crearne uno, ho concluso che fossero completamente impazzite. E ne ho prenotata una copia.

 

Non consideravo che a firmare era Ivan Venturi, uno che di videogiochi ne sa, perchè per quella strada c’è passato. Già colonna portante della leggendaria Simulmondo (per cui nel 1987 ha creato Bowls, il primo uno dei primi videogiochi interamente italiani), Venturi è qui all’esordio come scrittore, ed è forse proprio questo -unito al dichiarato, inevitabile, autobiografismo- a rendere la storia così autentica. E in qualche modo addirittura entusiasmante, nel momento in cui le parti narrative si incastrano alla perfezione con quelle più didattiche per raccontare una storia che è prima di tutto una lezione sull’importanza dell’immaginazione e su quello che può fare. Soprattutto se ha in mano gli strumenti giusti.

 

Strumenti che ci sono. Come ciliegina sulla torta, allegato al libro c’è il CD-ROM Inventastorie, versione light dell’authoring system usato dai protagonisti del libro, che consente in modo piuttosto semplice di creare a chiunque adventure games spartani ma di sicuro effetto. Magari non ci si riesce a ricreare Monkey Island, ma certi adventure dei vecchi tempi non sono poi così lontani.
E ti riscopri, a fine lettura, a desiderare di poter avere di nuovo 11 anni, per poterti imbattere in un libro così, leggerne le pagine ancora e ancora e scoprire che anche tu potresti non essere così diverso dal protagonista del libro. E che avere 11 anni, dopo tutto, forse non è poi così male.

 

martedì, 15/12/2009

Heaven knows this is a useless cover, now

Le date italiane dei Kings of Convenience di un paio di mesi fa hanno chiaramente mostrato il duo norvegese a un bivio: non aiutati dalla qualità altalenante del’ultimo Declaration of dependence, il lato ballata de loro repertorio ha mostrato un po’ la corda, nettamente surclassato dai pezzi un po’ più uptempo (diciamo così), con arrangiamenti più ricchi e ritmiche un po’ più veloci. Forse nel tentativo di riconciliare il pubblico con la loro natura più intima, i re della convenienza hanno chiuso la data di Roma con la cover di un classicone degli Smiths – l’inno dell’internazionale indie Heaven knows I’m a miserable now – suonata voce e chitarra dal solo Erlend Øye. Ascoltate e giudicate voi: riconcilia o no?

 

 

Kings of Convenience – Heaven knows I’m a miserable now (The Smiths cover – live in Rome 2009) (MP3)

 

Kings of Convenience – Live in Rome – full concert (RadioDue Rai rip) (MP3)

 

 

[foto Kekkoz]

 

lunedì, 14/12/2009

Welcome to 1994

A Maggio all’Estragon suonano i Pavement.

A Giugno a Ferrara ci sono i Pixies.

• Nelle classifiche di fine anno, si piazzano bene i dischi di Pearl Jam e Alice in Chains.

Jack John Frusciante è di nuovo uscito dal gruppo (via).

 

venerdì, 11/12/2009

Will you hold my hand when I go?

Ogni tanto capita che bei dischi che avrebbero tutte le caratteristiche per sfondare (o almeno attirare un po’ di attenzione da stampa e blog) cadano invece in uno strano gorgo di indifferenza e vengano immediatamente dimenticati anche se non lo meritano.

E’ più o meno quello che è successo a Yeah So, il disco d’esordio degli Slow Club pubblicato a inizio anno dalla sempre trendissima Moshi Moshi, che avrebbe avuto tutte le carte in regola per sfondare (sono un duo uomo-donna con formazione à la White Stripes, sono inglesi, suonano un brioso folk-pop molto orecchiabile) e che invece non si è filato quasi nessuno.

Peccato perchè è un disco caruccio, con belle ballate, veloci cavalcate folk che diventano quasi country ma che contemporaneamente flirtano con il rock’n’roll e un paio di testi naif ma ispirati, come quello del mio pezzo preferito, la opener When I go, che racconta una variazione sul tema «se per quell’anno nessuno di noi due è sposato, ci sposiamo tra noi?».

 

If we’re both not married by twenty-two
Could I be so bold and ask you?
If we’re both not married by twenty-three
Will you make my year, and ask me?

 

If we’re both not married by twenty-four
Will you pass me those knee pads and I’ll get on the floor
If we’re both not married by twenty-five
I hope that there’s some childish spark still alive

 

Cos there are so many lessons
That I just never get to learn
And there are so many questions that still burn, like

 

Will you hold my hand when I go?

 

Slow Club – When I Go (MP3)

 

 

giovedì, 10/12/2009

Il regalo di natale dei Portishead (per Amnesty)

Portishead have released a brand new track – ‘Chase the Tear’ for Amnesty International.

It’s now available as an exclusive download single from 7 digital with all earnings going towards Amnesty’s human rights work. ‘Chase the Tear’ is a reference to a paper tear-style ‘tear’, not a tear from an eye!

Nuovo pezzo dei Portishead, che si può acquistare online per supportare Amnesty International. Spettacolo.

 

mercoledì, 09/12/2009

The Evolution of the hipster

[Clicca sull'immagine per ingrandire]

 

Un paio di settimane fa citavamo Paste Magazine e le sue classifiche con il meglio di fine decennio. E dall'ultimo numero di Paste viene questo ritratto dell'evoluzione dell'hipster, che dall'emo di inizio millennio, passando per lo scenester, il twee, il montanaro, la vintage queen e il Williamsburghese fino al recentissimo meta-nerd, tenta di descrivere fasi e tipologie di una subcultura che non esiste.   

E' ovvio che vederle come fasi successive e così cronologicamente connotate è un mero pretesto per emulare il celebre e pluri-parodizzato grafico dell'evoluzione, ed è anche ovvio che il giochetto delle descrizioni brevi e ironiche funziona solo fino a un certo punto (e presta il fianco a tutte le ironiche prese per il culo del caso); però provate a fingere di non conoscere gente che ricade a puntino in uno stereotipo o nell'altro, se ci riuscite. E a fingere di non esserci caduti anche voi, almeno qualche volta…

lunedì, 07/12/2009

La cuffia di lana

Neff knitted headphones

 

(grazie a thisKID)

 

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venerdì, 04/12/2009

Il cinema indie, un non genere già andato a male

Cosa cercate, voi, in un buon film?

Quando decidete cosa andare a vedere al cinema, cosa affittare al videonoleggio, cosa guardare sulla pay-tv o cosa scaricare da Bittorrent, in base a cosa scegliete un film? Cercate qualcosa di noto o qualcosa di ignoto? Preferite film che parlino in modo quanto più fedele di vite simili alla vostra, o sperate di evadere lontano? Cercate di rispecchiarvi il più possibile nei personaggi o venite irritati dalla pretesa di parlare di cose a voi familiari?

Io pendo spesso per la prima ipotesi, lo ammetto. E lo considero in buona parte un difetto, che mi tiene lontano da generi che sovente scarto a priori (scoprendo poi anni dopo di essermi perso dei capolavori), in favore di storielle senza sale che srotolano riferimenti di cultura pop in cui mi ritrovo. Storielle senza sale come quelle del cinema indie.

 

Il cinema indie è una mostruosità. Il cinema indie (in cui il vaghissimo termine che tanto amiamo è da intendersi nel senso pitchforkiano del termine, di quella cultura pop per lo più anglosassone che vorrebbe opporsi al mainstream ma è di fatto costretta a metterne in piedi una versione distorta e snob, condannata tanto all’irriducibile inseguimento del futuro quanto alla venerazione del passato) era una rarità fino a qualche anno fa, mentre ora, scoperto un segmento di mercato ingenuo e appetibile, è diventato un vero e proprio filone, con capostipiti nobili (dalle grandi commedie degli anni ’80 a recenti film di culto come Eternal sunshine of the spotless mind, I Tenenbaums o Lost in translation) e produzione abbondante. Il suo target (e i suoi protagonisti) siamo noi, tardoadolescenti, twenty e thirty-something occidentali con buoni titoli di studio, discreto potere di acquisto e una declinazione di gusti su musicacinemalibriinternet che ci fa sentire migliori di coloro che ci circondano.

 

 

 

Nel momento in cui si è rivelato come un genere, il cinema indie era già morto.

L’inizio della fine è stato Garden State. Un film terribile, diretto e interpretato dall’icona del puccismo Zach Braff (meglio noto come J.D., protagonista di Scrubs), tenuto in piedi unicamente da una bella colonna sonora, infilata a forza nella storia nella celebre scena "Devi sentire questa canzone, ti cambierà la vita" che ha consacrato gli Shins. Un film impossibile da raccontare, tanto la trama è esile e i dialoghi pretestuosi.

 

 

 

In mezzo c’è stato Juno. Inaspettatamente apprezzato dal pubblico, Juno è stato in grado di parlare a pubblici diversi, smarcandosi dai luoghi comuni delle commedie tutte indie-pop e dialoghi quirky (che pure incarna) con una storia ben scritta e un po’ più carne al fuoco del solito.Sotto sotto rimane una commediola di poche pretese e media gradevolezza, ma in mezzo agli altri film del suo genere riesce a fare un figurone.

 

 

 

Il punto più basso del genere è stato probabilmente toccato da Nick and Norah’s infinite playlist, un film così brutto che al confronto Juno sembra un’opera di Truffaut. Mai vista un’esibizione tanto sfacciata di riferimenti fin dalla prima scena (una carrellata dei poster appesi in camera dal protagonista; sottile), un namedropping così furibondo, una storia così inverosimile. Il fatto che in teoria sia una commedia da teenager rischia di essere un’aggravante invece che un’attenuante.

 

 

 

Ormai, come dicevo, esce una commedia indie ogni paio di mesi. Adesso anche in Italia è il turno di 500 days of Summer (da noi 500 giorni insieme), che vuol raccontare una storia d’amore atipica che, guarda caso, cade in tutti i luoghi comuni del caso: vestiti vintage per lei, vulcanica e appassionata (Zooey Deschanel, già chanteuse retrò con She & Him e ora moglie di Ben Gibbard dei Death Cab for Twilight Cutie), cardigan e sneakers per lui, timido ma sensibile (l’ex bambino prodigio Joseph Gordon-Levitt); e (oltre a un imbarazzante product placement dell’IKEA su cui è meglio sorvolare) un paio di scene topiche sulle note degli Smiths. Audace!

 

 

 

A confronto con 500 days of Summer, Away we go (già presentato con grosso timore su queste pagine mesi fa) fa un vero figurone, perchè quanto meno è un film vero; il regista (Sam Mendes, quello di American Beauty) conosce il mestiere e gli attori pure, ed è già un inizio. Ma è anche una fine: la trama (firmata dall’ex formidabile genio Dave Eggers e da sua moglie) vede il verosimile scenario di una coppia di trentenni in attesa di un figlio che vagano per gli States alla ricerca di una città in cui stabilirsi a vivere. Succede un po’ a tutti, del resto.

 

 

 

Negli states è da poco uscito Paper Heart, che osa di più nella forma quindi fallisce in modo ancor più sonoro. Si tratta di un finto documentario/reality sulla protagonista Charlene Yi e la sua difficoltà a innamorarsi (son problemi); il protagonista maschile è Michael Cera (già in Juno e in Nick and Norah; get a real career, dude) nel ruolo di se stesso e la cosa fa accapponare la pelle al solo pensiero. La sua faccia da culo fa prudere le mani per tutto il film, così come le risatine della protagonista e la vacuità dell’intera operazione. Quando la Yi imbraccia la chitarra e si mette a registrare col suo Macbook una canzone twee-pop / freak folk per il suo amato (la trovate qui sotto) si comincia ad augurarsi l’estinzione del genere umano. O, quantomeno, ci si sente pronti per darsi all’horror.

 

 

 

[sullo stesso argomento ma spettro un po’ più ampio e opinioni un po’ diverse e meglio argomentate: Blueblanket su queste pagine, mesi fa]

 

 

 

The Shins – New slang (MP3)

The Moldy Peaches – Anyone else but you (MP3)

Charlene Yi – Perfume (MP3)

 

giovedì, 03/12/2009

L’unica band che non fa video per promuovere la musica, ma musica per promuovere i video

Qualcuno se li ricorda gli OK Go? Nel 2006 avevano avuto i loro 15 minuti di celebrità grazie ai coreograficissimi video A million ways (quello dove ballano senza tapis roulant) e Here it goes again (quello dove ballano con i tapis roulant); poi sono scomparsi nel dimenticatoio che la loro anonima musica meritava.

Ora i nostri ci riprovano: in occasione dell'uscita del nuovo disco Of the blue color of the sky (che esce a Gennaio ed è prodotto nientemeno che da Dave Fridmann) è appena stato diffuso il video del singolo WTF?. Ancora una volta un pezzo non proprio immortale (ma meno ruffiano dei vecchi singoli, va detto) con un video assolutamente distintivo, che fa un uso creativo di una tecnologia datata e sembra, ancora una volta, interessare alla band più della musica.

Visto l'impegno che ci mettono, viene da chiedersi se non gli convenga direttamente cambiare mestiere.

 

mercoledì, 02/12/2009

Ordinary Day