Cosa cercate, voi, in un buon film?
Quando decidete cosa andare a vedere al cinema, cosa affittare al videonoleggio, cosa guardare sulla pay-tv o cosa scaricare da Bittorrent, in base a cosa scegliete un film? Cercate qualcosa di noto o qualcosa di ignoto? Preferite film che parlino in modo quanto più fedele di vite simili alla vostra, o sperate di evadere lontano? Cercate di rispecchiarvi il più possibile nei personaggi o venite irritati dalla pretesa di parlare di cose a voi familiari?
Io pendo spesso per la prima ipotesi, lo ammetto. E lo considero in buona parte un difetto, che mi tiene lontano da generi che sovente scarto a priori (scoprendo poi anni dopo di essermi perso dei capolavori), in favore di storielle senza sale che srotolano riferimenti di cultura pop in cui mi ritrovo. Storielle senza sale come quelle del cinema indie.
Il cinema indie è una mostruosità. Il cinema indie (in cui il vaghissimo termine che tanto amiamo è da intendersi nel senso pitchforkiano del termine, di quella cultura pop per lo più anglosassone che vorrebbe opporsi al mainstream ma è di fatto costretta a metterne in piedi una versione distorta e snob, condannata tanto all’irriducibile inseguimento del futuro quanto alla venerazione del passato) era una rarità fino a qualche anno fa, mentre ora, scoperto un segmento di mercato ingenuo e appetibile, è diventato un vero e proprio filone, con capostipiti nobili (dalle grandi commedie degli anni ’80 a recenti film di culto come Eternal sunshine of the spotless mind, I Tenenbaums o Lost in translation) e produzione abbondante. Il suo target (e i suoi protagonisti) siamo noi, tardoadolescenti, twenty e thirty-something occidentali con buoni titoli di studio, discreto potere di acquisto e una declinazione di gusti su musicacinemalibriinternet che ci fa sentire migliori di coloro che ci circondano.
Nel momento in cui si è rivelato come un genere, il cinema indie era già morto.
L’inizio della fine è stato Garden State. Un film terribile, diretto e interpretato dall’icona del puccismo Zach Braff (meglio noto come J.D., protagonista di Scrubs), tenuto in piedi unicamente da una bella colonna sonora, infilata a forza nella storia nella celebre scena "Devi sentire questa canzone, ti cambierà la vita" che ha consacrato gli Shins. Un film impossibile da raccontare, tanto la trama è esile e i dialoghi pretestuosi.
In mezzo c’è stato Juno. Inaspettatamente apprezzato dal pubblico, Juno è stato in grado di parlare a pubblici diversi, smarcandosi dai luoghi comuni delle commedie tutte indie-pop e dialoghi quirky (che pure incarna) con una storia ben scritta e un po’ più carne al fuoco del solito.Sotto sotto rimane una commediola di poche pretese e media gradevolezza, ma in mezzo agli altri film del suo genere riesce a fare un figurone.
Il punto più basso del genere è stato probabilmente toccato da Nick and Norah’s infinite playlist, un film così brutto che al confronto Juno sembra un’opera di Truffaut. Mai vista un’esibizione tanto sfacciata di riferimenti fin dalla prima scena (una carrellata dei poster appesi in camera dal protagonista; sottile), un namedropping così furibondo, una storia così inverosimile. Il fatto che in teoria sia una commedia da teenager rischia di essere un’aggravante invece che un’attenuante.
Ormai, come dicevo, esce una commedia indie ogni paio di mesi. Adesso anche in Italia è il turno di 500 days of Summer (da noi 500 giorni insieme), che vuol raccontare una storia d’amore atipica che, guarda caso, cade in tutti i luoghi comuni del caso: vestiti vintage per lei, vulcanica e appassionata (Zooey Deschanel, già chanteuse retrò con She & Him e ora moglie di Ben Gibbard dei Death Cab for Twilight Cutie), cardigan e sneakers per lui, timido ma sensibile (l’ex bambino prodigio Joseph Gordon-Levitt); e (oltre a un imbarazzante product placement dell’IKEA su cui è meglio sorvolare) un paio di scene topiche sulle note degli Smiths. Audace!
A confronto con 500 days of Summer, Away we go (già presentato con grosso timore su queste pagine mesi fa) fa un vero figurone, perchè quanto meno è un film vero; il regista (Sam Mendes, quello di American Beauty) conosce il mestiere e gli attori pure, ed è già un inizio. Ma è anche una fine: la trama (firmata dall’ex formidabile genio Dave Eggers e da sua moglie) vede il verosimile scenario di una coppia di trentenni in attesa di un figlio che vagano per gli States alla ricerca di una città in cui stabilirsi a vivere. Succede un po’ a tutti, del resto.
Negli states è da poco uscito Paper Heart, che osa di più nella forma quindi fallisce in modo ancor più sonoro. Si tratta di un finto documentario/reality sulla protagonista Charlene Yi e la sua difficoltà a innamorarsi (son problemi); il protagonista maschile è Michael Cera (già in Juno e in Nick and Norah; get a real career, dude) nel ruolo di se stesso e la cosa fa accapponare la pelle al solo pensiero. La sua faccia da culo fa prudere le mani per tutto il film, così come le risatine della protagonista e la vacuità dell’intera operazione. Quando la Yi imbraccia la chitarra e si mette a registrare col suo Macbook una canzone twee-pop / freak folk per il suo amato (la trovate qui sotto) si comincia ad augurarsi l’estinzione del genere umano. O, quantomeno, ci si sente pronti per darsi all’horror.
[sullo stesso argomento ma spettro un po’ più ampio e opinioni un po’ diverse e meglio argomentate: Blueblanket su queste pagine, mesi fa]
The Shins – New slang (MP3)
The Moldy Peaches – Anyone else but you (MP3)
Charlene Yi – Perfume (MP3)