Little fish Big Fish swimming in the water
Ci sono due categorie di persone: quelli che, appena finito il film, non fanno neanche partire i titoli di coda che già hanno deciso se gli è piaciuto o meno, quali erano i difetti e quali i pregi, e che si lanciano subito in spericolate tirate critiche (di solito decisamente discutibili), e quelli che stanno zitti, tentano di indossare un’espressione impermeabile alle occhiate interrogative altrui e sperano che nessuno li costringa ad affrontare di petto quello che hanno appena visto. Di solito, i primi sono più insopportabili. Eppure, immancabilmente, quando si è appassionati non si riesce a non ricadere in questa categoria.
Mi è capitato spesso di finire nel primo gruppo, in particolar modo dopo film mediamente brutti, insignificanti o al massimo ‘carini’; del resto, l’Italia è una nazione di poeti, santi, navigatori, commissari tecnici in erba, critici sedicenti e blogger (ovviamente le ultime tre cose sono strettamente correlate), e se siete su queste pagine anche voi un motivo ci sarà.
Stasera, però, ero muto. Non una parola. Sguardi assassini agli amici subito prodighi di opinioni. Solo il desiderio di ripensarci. Nelle orecchie ancora il riverbero della voce e della chitarra di Eddie Vedder nella prima grande canzone dei Pearl Jam da diversi anni a questa parte, e negli occhi (lacrimuccia ricacciata indietro a forza) ancora la fantasmagoria quotidiana di Big Fish, ultimo, splendido, film di Tim Burton. E voglio rimanere così, senza una parola.