Everybody wants to be a PJ (but herself)
PJ Harvey è stata senza ombra di dubbio uno dei più grandi talenti musicali degli anni ’90; su questo -spero- siamo tutti d’accordo. Su di lei è ormai ricalcato un certo modello di rocker al femminile, capace di incarnare al contempo forza e debolezza, che sa passare senza soluzione di continuità dal rock più rabbioso alle ballate più morbide, dando un ritratto della femminilità a 360° e sfuggendo agli stereotipi della folksinger o della starlette del pop che solo poche artiste prima di lei (Patti Smith e Soiuxsie Sioux su tutte) erano riuscite ad evitare. In Dry, Rid of me e To bring you my love (trilogia da brividi, a ripensarci), Polly Jean cantava il sesso, l’amore, l’insicurezza, ma anche le mestruazioni, gli ambigui rapporti tra i sessi e la disperazione dell’amore perduto. Una personalità fortissima, un’intensità quasi ineguagliabile, e una serie di canzoni (volete tre titoli? Ne butto là tre, una per album: Oh my lover, Missed e The dancer) praticamente perfette. Sono in tante a doverla ringraziare, a partire dalla prima Alanis Morrissette fino a Fiona Apple, da Cat Power a Carmen Consoli, a tutte le rockeuse incazzate e problematiche a cui PJ ha fornito un modello se non musicale almeno stilistico e mediatico.
Ed è proprio la PJ controversa degli esordi ad essere il modello principale di due artiste che mi sono trovato ad ascoltare ultimamente: Shannon Wright e Carina Round. La prima è uscita da poco con Over the sun –prodotto dall’ubiquo Steve Albini (che produsse Rid of me)- un disco cupo, potente e contorto in cui chitarre distorte ed angoscia vanno a braccetto con desolate ballate pianistiche come le farebbe una Fiona Apple un po’ più art. La seconda (delle cui metamorfosi grafiche e origini chietine parlava Zazie giorni fa), mi sta deliziando con Disconnection, bel disco ristampato recentemente da una major, in cui l’influenza di PJ si sente di brutto nell’uso della voce e nella costruzione delle melodie. Entrambi sono dischi eccellenti, che credo avranno lunga vita all’interno dei mio lettore cd.
Tornando a PJ, nel corso degli anni la sua vena si è un po’ spenta. Un paio di album minori (belli ma non proprio facili), poi il grande successo di Stories from the city, stories from the sea, che abbandonava i contrasti e l’incisività degli esordi per appiattirsi su un modello pop rock banalotto con Patti Smith come unico spirito guida, e poche canzoni (tra cui il duetto con Thom Yorke) a lasciare il segno. Dopo i canonici 3 anni di silenzio, tra poco più di un mese uscirà il suo nuovo album, Uh Huh Her, che si preannuncia come un ulteriore passo indietro: si tratta, esattamente come l’aveva descritto lei, di un disco «blues, cupo e brutto», ma queste tre parole (che mi avevano fatto sperare in un ritorno all’intensità degli esordi) sono da intendersi nell’accezione più negativa possibile. Le canzoni si fanno ripetitive e monotone, la voce sembra ormai un clone in tutto e per tutto di quella di Patti Smith, e dopo un paio di ascolti nessuna delle canzoni ha lasciato la minima traccia di sè, neanche il primo singolo The letter (che parte bene ma non decolla mai). Pare quasi che PJ Harvey faccia di tutto per buttare all’aria il suo talento confezionando canzoni poco pretenziose che non vanno da nessuna parte, rimanendo a un livello superficiale dove prima scavava e metteva a nudo i lati più oscuri e dolorosi delle cose.
Certo, il 19 all’Heineken Jammin Festival saremo là anche per lei (non ci avessero infilato Ben Harper in mezzo -sì, lo so che dal vivo è bravo, ma insomma, se ne faceva volentieri a meno- sarebbe stata una serata perfetta), ma probabilmente staremo chiamando a gran voce i pezzi vecchi della PJ perduta, che mentre tutte vogliono essere come lei, rinuncia ad essere se stessa.