Seattle, it’s still alive
Una decina di anni fa Seattle era il massimo. Praticamente tutta (o quasi) la musica che ci piaceva veniva da là, e il grunge era un genere sufficientemente indistinto da indicare cose anche molto diverse tra loro, che finivano per accontentare un po’ tutti; si parlava con venerazione della sua vita notturna, si sognava di cenare sullo Space Needle, di vivere in un complesso di appartamenti come quello di Singles e potersi prendere ogni mattina un Frappuccino nel primo caffè Starbucks. Ricordo ancora benissimo quanto invidiavamo quell’amico di un amico che era andato un anno a studiarci, e che raccontava aneddoti leggendari sulla sua scena musicale, sulla coolness del luogo e -inevitabilmente- sulla per noi inconcepibile tranquilla disponibilità delle ragazze.
Adesso Seattle non se la caga più nessuno, e non fosse per la Microsoft (che ha base lì vicino, a Redmond) sarebbe di nuovo, anche nell’immaginario mondiale, una qualsiasi tra le tante città degli USA. Musicalmente ora è tornata alla grande New York, ha fatto il botto Toronto, e hanno scene musicali di rilievo pure posti finora misconosciuti come Portland e persino Omaha, in Nebraska; Seattle -non fosse per i sempre più famosi Death Cab for Cutie (che sono comunque più legati alla scena universitaria di Bellingham)- ha ormai perso tutto il suo appeal.
Eppure, proprio ultimamente, la vecchia Seattle musicale ha dato nuovi segni di vita, ottimi segni di vita. Entrambi, tra l’altro, che fanno i conti con quel passato ingombrante, lasciando ben sperare per il futuro. Questi segni vengono dai Pearl Jam e da Mark Lanegan.
I Pearl Jam, non so voi, ma io li davo per morti da anni. Dopo Yield (che secondo me –Ten a parte- è il loro disco più riuscito), infatti, non mi sembrava fossero stati capaci di fare niente di rilievo, avvitandosi in una spirale fatta di rock americano roccioso, sincero, ma abbastanza banale, e di un’inondazione di live davvero eccessiva. A fine Giugno, però, è uscito Benaroya Hall, 22 Oct 2003, un doppio acustico che ritrae un concerto assolutamente sui generis, che oltre a regalare versioni splendide di alcuni dei loro pezzi più belli (su tutte Immortality e una Black con singalong davvero commovente) e alcune cover d’autore ottimamente rese (soprattutto le classiche Crazy Mary di Victoria Williams e Masters of war di Bob Dylan), ritrae una band che ha senza dubbio ancora qualcosa da dire. E che è così in grado di mettere in fila canzoni recenti che, fuori dal contesto di dischi mediocri, brillano di luce propria (soprattutto Sleight of hand e All or none); come anche di proporre l’ultimo (in ordine cronologico) singolo della band, quella Man of the hour che sta nella colonna sonora di Big Fish di Tim Burton, e che è una delle ballate più belle uscite nel 2004. Niente male per un gruppo finito che viene da una città che musicalmente non ha più niente da dire.
Mark Lanegan nessuno lo dà per morto, anche se viste le sue condizioni e lo smodato uso di droghe che fa, c’è il rischio che a farlo ci pensi da solo; finchè tira fuori dischi come Bubblegum (che esce venerdì) faccia pure, verrebbe da dire cinicamente. Lanegan a Seattle ci è cresciuto e ne ha fatto un pezzo di storia musicale, con gli Screaming Trees prima e da solista poi, con 5 album di cantautorato inquieto grossolanamente inquadrabile come blues. Di tutti i suoi dischi da solo, Bubblegum è probabilmente quello che recupera di più il sound sporco della sua band di origine, incrociandolo con influenze dei Queens of the stone age (coi quali negli ultimi anni Lanegan ha bazzicato, e che suonano anche nel suo disco) e soprattutto con una vena cantautorale mai così fervida. Quello che esce fuori è un disco bello e ispirato, vario ma non schizofrenico, intensamente impregnato della voce sulfurea di Lanegan, con blues metanfetaminici, suoni industriali che vanno a braccetto con hammond e pianoforti romantici, e storie maledette e disperate da raccontare. When your number isn’t up è una marcia funerea che vede la guerra di trincea come metafora della vita, Metamphetamine Blues è un inferno industriale e lisergico, l’incedere incorniciato di organo e violino di One hundred days è fatalista e rassegnato (One day a ship comes in, one day a ship comes in / But I can’t say how or when / But I know somewhere the ship comes in every day), mentre in Come to me fa capolino la voce di Polly Jean Harvey, e in Out of nowhere una chitarra liquida e desertica calexicheggia e nickcaveggia immagini allucinate sulla fine. Dell’amore? Della vita? O solo di un grande disco?
Della musica di Seattle sicuramente no.