Non c’è niente di peggio di un pazzo innamorato della sua follia
Ieri mattina, quando mia madre ha fatto irruzione nella mia stanza (ero tornato dai miei per il week-end), si è trovata davanti la scena impietosa di me -comatosamente svegliato di soprassalto- completamente attorcigliato dagli auricolari del discman; mi ha guardato sconsolata, ha detto qualcosa tipo «Ma tu non riesci a stare senza musica manco quando dormi?» e se n’è andata. Ho provato a farfugliare qualcosa in risposta, ma ho avuto il buon gusto di stare zitto (o forse ero solo ancora troppo rincoglionito dal sonno), vagamente inquietato dalla sua espressione da madre coraggio alle prese con un figlio drogato.
Del resto, nelle orecchie mi risuonava ancora la scala di basso di una canzone sentita la sera precedente, Human Beings dei Maritime, probabilmente il pezzo riuscito meglio alla band di Milwaukee al bel concerto di sabato a Pesaro. Mi sono alzato stancamente dal letto accompagnato nel mio jukebox mentale dalla cadenza dolente del suo pop cristallino, arrotolando stoicamende il cavo degli auricolari continuando a mormorare we touch we touch. Subito dopo, più per abitudine che per altro, ho acceso lo stereo, e il mio ammaccato umore mattutino ha potuto beneficiare dello slancio di Johnny Cash dei Sons & Daughters, un’appiccicosissima marcetta rocchenrolle con melodia che odora di Pogues che tra un po’ rischiamo di sentire ovunque (sono targati Domino come i Franz Ferdinand, ricordiamolo).
«In effetti forse ascolto un po’ troppa musica», mi sono detto, chiedendomi cosa qualifichi quel «troppo» e se -e quanto- si finisca per venire desensibilizzati dall’abitudine a vivere tutte le proprie giornate come un costante flusso di note e dischi; un po’ come i tossicodipendenti, la cui soglia di indifferenza alle sostanze che assumono tende ad aumentare in maniera parabolica nel tempo, oppure come i malati mentali, che passando la giornata a coltivare un loro mondo privato, finiscono per perdere completamente i contatti col mondo reale. Il tipo di riflessione che in una serata meditativa potrebbe facilmente impegnarmi per varie ore, ma che all’inizio di una giornata incasinata viene immediatamente scalciato via da un riff di chitarra ben fatto unito alla preoccupazione di recuperare due calzini almeno vagamente somiglianti.
Acceso il telefono, trovo l’sms di un amico che, riguardo una questione complessa che non ha senso toccare qua, rivela di essere proprio come me. Il collegamento con il titolo è immediato, mi fiondo in camera e non trovo pace finchè non riesco a mettere sul piatto I am just like you dei Ronin, murder ballad in cui le cinematiche atmosfere mitteleuropee dei Ronin incontrano la perfezione della voce di Sara Lov dei Devics (autori di uno dei tre dischi migliori del 2003; ma questa è un’altra storia); con esiti devastanti.
Con le poche energie residue salgo in macchina, e parto alla volta di Bologna. Incolonnato sulla statale gonfia di pendolari ho tutto il tempo per ravanare a dovere nello scomparto del cruscotto, recuperando un nastrone untitled che -scopro subito- reca una selezione della mia heavy rotation di poco più di un annetto fa. Sono impegnato in un contorsionismo degno del circo di Praga, nel tentativo di afferrare il biglietto dell’autostrada al casello senza togliermi la cintura nè aprire la portiera, quando da un passato che mi sembra remoto mi colpiscono le note di Strange things will happen dei Radio Dept. Quando ho registrato quel nastrone ignoravo che, nell’anno successivo, di cose strane ne sarebbero successe in quantità imprevedibile, e che quella stessa canzone avrebbe addirittura giocato un ruolo in alcune di esse; proprio quella canzone che, cantata dalla ormai ex ragazza del cantante Johan, rimarrà probabilmente un unicum nella carriera dalla band svedese, testimoniando come le cose strane, una volta accadute, spesso tornano al regno dei periodi ipotetici dell’irrealtà da cui sono venute.
Quando arrivo a casa, mi chiamano al telefono, e la conversazione surreale che scaturisce a causa della linea disturbata mi rende indispensabile l’immediato ascolto di Maple Leaves di Jens Lekman, interamente basata -oltre che su un tripudio di archi bacharachiani- sul fraintendimento della parole dell’amata da parte dell’autore; lei pontifica che la vita è tutta una questione di far credere (make believe), mentre lui capisce che dipende tutto dalle foglie d’acero (maple leaves). Ridicolo, come tutti i dialoghi tra sordi. E delizioso.
Quando mio fratello rientra e mi trova sdraiato sul letto che canto, mi guarda come si guarderebbe uno un po’ matto. E forse sì, in effetti, un analista potrebbe avere qualche difficoltà a trovare questi comportamenti normali. Del resto, in realtà, non è proprio il caso di preoccuparsi di cosa potrebbe pensarne un analista: se questa è follia, allora ho intenzione di tenermela stretta.