"Sai se la metropolitana andrà ancora quando il concerto sarà finito? Devo andare in stazione a prendere il treno…" La domanda me la pone un giovane fan piemontese dei Limp Bizkit il quale, finito il set dei suoi beniamini, è rimasto solo e si è avvicinato a me in cerca di risposte, “forse perché ho l’aria di persona affidabile in mezzo a questo inferno”, penso. Anche io sono solo e al momento siedo impaziente sui gradini vicino a una delle entrate a monitorare il riempimento del parterre e a prendere un po’ d’aria prima dell’immersione. Dentro, ci sono almeno 15 gradi in più dei 30 che ci sono fuori, all’aperto. Non si vede altro che una distesa di torsi nudi, tatuaggi e bermuda a tre quarti. Io sono vestito come per un concerto dei Fleet Foxes a Hipsterlandia. Sono addiritttura elegante. Qua dentro insomma sono una fighetta.
Mi trovo al Palasharp (che per me sarà sempre "Palatrussardi", con quel suo retrogusto socialista) per Rock in Idro e, a differenza di tutte queste persone provate da una pesante abbuffata di birra e decibel sin dal primissimo pomeriggio, sono appena arrivato per assistere all’unico set che mi interessa, l’ultimo. Per essere qui ho pagato 50 euro. "…e poi ne varrà la pena? Non li ho mai visti e conosco solo tre canzoni…". Al mio nuovo e temporaneo amico propino un’accorata perorazione che spero gli faccia comprendere che perdere l’ultimo metrò è un rischio che vale la pena correre, eccome, per assistere allo spettacolo che sta per andare in scena.
Questa band ha finito per significare così tanto per me, per convogliare e sintetizzare così tanti significati appartenenti alla mia più piena e torbida adolescenza che a casa in attesa di venira qua ero emozionato come una ragazzina prima del ballo di fine anno. Non sapevo cosa mangiare. Non sapevo se mangiare. Come vestirmi. A che ora arrivare. Non mi capitava da molto, molto tempo e forse, a pensarci meglio, non poteva capitarmi che con loro. Ma è ora di avviarmi, sento che stanno per cominciare. Il ragazzo mi propone un cinque che ricambio e mi saluta con un “Ciaobbello” cui replico con un paterno “Buon concerto e rientro a casa”. E mettiti la maglina di lana ché prendi freddo, figliolo.
I Faith No More salgono sul palco e partono in quarta con un pezzo…lento, romantico e languido di Peaches & Herb, sconosciuto duo black, spiazzando l’audience e portandola all’epifania ilare quando si capisce dal testo del ritornello il motivo per cui stasera lo stanno suonando:
Reunited and it feels so good
Reunited ‘cause we understood
There’s one perfect fit And, sugar, this one is it We both are so excited
‘Cause we’re reunited, hey, hey
I FNM se non prendono per il culo, loro stessi e il pubblico e tutti, non sono contenti. Non poteva scamparla il loro reunion tour che questa sera tocca la quarta tappa a Milano, unica data italiana.
Durante questo primo pezzo sto in disparte, temo per la mia incolumità, sono vecchio per queste cazzate, non voglio essere stritolato da un pericoloso pogo di metallari. Ma quando parte The Real Thing, be’, capisco che non posso stare lì con la mia fotocamerina del cazzo a filmare o a guardare; e quando il pezzo come da copione esplode io, semplicemente, non capisco più nulla e mi butto a incudine tra la gente (il palazzetto è stracolmo) portandomi più vicino possibile al palco. Il mio viaggio a ritroso nel tempo è iniziato. Non faccio più un lavoro serio, non ho più l’età che ho, non ho più le responsabilità di oggi. Al contrario, ho 17 anni, suono la batteria e sperimento le droghe, ho American Psycho sul comodino della cameretta e penso che io e i miei amici siamo più fighi degli altri perché leggiamo e ascoltiamo quelle cose invece di leggere di Che Guevara e ho una rabbia dentro che non so neanch’io cosa sia e bisogna pur sublimarla in qualche modo e spesso ho voglia di spaccare tutto e qualcosa spacco pure perché devo farlo, devo confrontarmi con questo mostro che mi possiede e capire dove mi vuole portare e sono capace di amare e soffrire e odiare come mai più mi capiterà nella vita. We Care a Lot, cioè non ce ne fotte un cazzo di niente, nemmeno dei bambini che muoiono di fame e del Live Aid, capito? E questa trance l’hanno innescata Mike Patton, che ha una voce impressionante con la quale fa letteralmente ciò che vuole, e gli altri che suonano gli strumenti con una foga e una precisione inaudite o comunque inalterate dopo dieci anni di pausa e tanti capelli bianchi in più.
E allora il gigione mette a frutto i suoi anni vissuti nel Belpaese e tira fuori una Evidence in italiano che è una piccola chicca solo per noi. E per voi, qua sotto.
Poi due inserti altrui nei loro pezzi che lascio indovinare a voi, qua e qua. L’ammissione quindi, anche quella ironica e contraddetta dai fatti che sono sotto i nostri occhi (e nelle nostre orecchie), che loro sono "troppo vecchi per queste cazzate".
E poi il finale (dopo diversi brani tra cui due esplosive Land of Sunshine e Caffeine) con una tirata e perfetta We Care a Lot.
E io per tutto il tempo sono felice come un ebete e ho i brividi e le lacrime agli occhi e a sorpresa mi ricordo i testi a memoria, mentre i pezzi passano via uno dopo l’altro, troppo veloci, maledizione. Non c’è tempo per la noia, non c’è tempo per pensare a dove sei. C’è solo un lampo che mi passa per la testa: "al ragazzo piemontese starà piacendo?". Ma è un breve momento di lucidità nel mezzo di un momento senza stile, coolness e controllo, un momento in cui pensi di capire solo tu la portata di quanto sta accadendo e ti ci butti a copofitto. E mentre scrivo, anzi, prima, mentre penso di scrivere queste parole che ho appena scritto, penso che sono retoriche e banali e pompate, ma anche che non me ne frega nulla e va bene così, perché questa basicità adrenalinica e sconclusionata forse è l’essenza stessa del Rock and Roll.
Il ritorno a casa non me lo ricordo. In realtà sono ancora là, almeno per oggi.