Sette anni fa portavo mio figlio, ai tempi unico, al suo primo concerto.
Scrissi la cosa sul mio blog, ai tempi vivo. Un sacco di lettori e fan degli Amari si complimentarono con me, chiedendomi addirittura se fossi interessata ad adottare qualcuno di loro.
Non ne adottai nessuno.
Gli Amari erano al loro quarto disco, se consideriamo Corporali. Quella sera suonavano al Covo. Mio figlio aveva sei anni. Andava in prima elementare e la maestra, qualche giorno dopo aver saputo del concerto, commentò: “Ah, sì, li conosco. I Negroamari…”
L’altra sera ho portato mio figlio, ora diventato Figlio Numero Uno, al suo quinto concerto, sesto se consideriamo un set acustico degli Yuppie Flu ai giardini di Santa Cristina, lì in via Fondazza, eoni fa.
Sette anni fa, mio figlio lo portavo ai concerti che si voleva tenere sempre dietro un elmetto da vichingo, comperato in una bancarella di Piazza Navona tra i piccioni romani, quella volta che – ancora – me lo tirai dietro a Roma perché io facevo un inutile corso di minimumfax.
Oggi, mio figlio è lui che mi porta ai concerti e si tira dietro ettolitri di malmostosità preadolescenziale, quella roba che lo fa esprimere se va bene a monosillabi (quattro, di solito: “sì”, “no”, “boh”, “sgrunf”), e se va male in perifrasi sghembe trasudanti rabbia malcelata e ironia stronza (“Sei stato al Burger King con i tuoi compagni oggi? Hai mangiato un hamburger?” “No, guarda. Ho mangiato l’insalatina ai sette tipi di indivia cucinata da Cracco”).
Fuori c’è il diluvio, sta piovendo tutta la pioggia che non ha piovuto a settembre, un settembre bellissimo e tardoestivo, un settembre in cui io sono invecchiata e ho finito l’ultimo anno della mia terza decade, Figlio Numero Due non si è perso un giorno di parchetto e Numero Uno ha sciacquato via i suoi pomeriggi a fare skate col suo amico Andrej, armeno, parlando di donne e analisi del periodo.
È una domenica di ottobre, adesso, e decisamente piove. Se alla mattina ancora avevo qualche Slancio Di Gioventù, per cui il concerto era il miraggio della settimana, quello per cui valeva la pena tirar la corda e arrivare fin qui, adesso, che sono le sette di sera e per uscire di casa ho bisogno della canoa, mi è un tantino passata la voglia.
“Basta, non ci andiamo più” dico decisa, entrando in camera di Numero Uno.
Lui tira su gli occhi dall’iPod, mi guarda, non dice un cazzo, scuote solo la testa. Torna su Quizz Cross.
“Hai capito? Rilassati, polleggiati, non usciamo, troppa pioggia”
“Certo che sei proprio invecchiata” dice solo, mentre risponde a una domanda di scienze, e con tutta probabilità scazza, perché in scienze non va oltre il tra il sei e il sette.
Bastardo stronzetto tredicenne, ora ti faccio vedere io.
“VESTITI! Siamo in ritardo” gli intimo. “E lavati le ascelle” che di solito funziona come dissuasore mobile incredibile e invece stavolta no, c’ha proprio voglia di uscire sotto l’amico nubifragio, arrivare a Ravenna e vedere un gruppo che i suoi compagni manco sanno chi è e quindi non potrà vantarsi proprio per un cazzo il giorno dopo a scuola.
“E comunque, non è che ti vergogni un po’ di uscire con tua madre, andare ai concerti, vedere gruppi che non sono David Guetta, cose così?”
Tira su la faccia ancora, scuote di nuovo la testa, poi va a lavarsi le ascelle.
Siamo in macchina, sotto chili di acqua, da qualche parte, tra la Romagna e il west. Ho già sbagliato strada tre volte, e in tutto questo tempo di abitacolo appannato Numero Uno mi ha regalato, nell’ordine, piccoli distillati di:
– Elementi di Bimbominkiaggine I e II (“Oh, l’altro giorno ho letto su facebook che uno ha fumato dodici canne in dodici minuti e dopo ha mangiato venti confezioni di canestrelli della coop e poi si è andato a fare anche un giro in centro e ha comprato un iPhone 7S. O forse 7C. Boh, non mi ricordo. Fico, però, eh?”)
– Storia del Cattivo Gusto Musicale dei primi Tredici Anni Di Vita (“Certo che maclemorefituringlosailcazzo spacca, eh?”)
– Stupidità Applicata parte I (“Ma tu la sai quella canzone che cantano tutti, quella che fa nanananaaaa”)
– Stupidità Applicata parte II (“Comunque siccome tutti la cantano, l’altro giorno l’ho cercata su youtube, cioè ho cercato “nananaaaaa”, ma sono venute fuori un migliaio di minchiate”)
– Sinossi di Furia Cavallo del West (“Ma dove cazzo stai andando? È già la quarta volta che passiamo da qua, forse è ora che ti ritirino la patente, mamma, e i concerti te li vedi su youtube”
– Teoria e Pratica di Spaccamento Di Coglioni (“Che ore sono? A che ora iniziano a suonare? E il gruppo spalla? Avrà già finito il gruppo spalla? Ho fame! Ho sete! Piove! Ma c’è inkiostro? No, perché se non c’è inkiostro io cosa faccio? Ma c’è qualcuno che conosci? Ma siamo, cioè fammi capire, siamo soli io e te, MAMMA?”
– Mutismo (“…”)
Siamo soli io e lui. Dalle parti di un paese che si chiama Serenase o qualcosa del genere. Abbiamo appena attraversato Osteria, perché i romagnoli, si sa, danno sti nomi del cazzo non solo ai figli ma pure ai paesi.
Al bar del corso di Serenase, gli prendo una piada. Dentro, Numero Uno si sistema su una sediolina di metallo di quelle da spiaggia, tra dodici extracomunitari e una coppietta di paese, a guardare la juve iniziata, su un megaschermo duemila pollici. Nonostante tutto, è nano. Anche sulla sediolina, mi fa questo effetto qui. Di figlio ancora piccolo, che non posso mai finire di accudire, perso in un bar di paese, a Serenase, a mangiar piada e guardare cinque minuti di juve. Beve in tre nanosecondi tutta la bottiglietta di acqua, si pulisce su una manica e dice: sono pronto.
Arriviamo al Bronson. Fradici, perché io ho parcheggiato la macchina in un campo di un signor contadino, in mezzo ai polli romagnoli. Incontriamo paolo, io gli dò del lei e gli chiedo “scusi dov’è il bronson” anche se ce l’ho davanti, il bronson, ma non lo riconosco, paolo, e quindi ci incontriamo così, a questi concerti improbabili, Numero Uno mi sgomita, mi chiede: chi è?, e d’ora in poi qualsiasi persona io saluti incontri e ci chiacchieri lui mi sgomita e mi urla: chi è?
Sono amici, cristo santo. Tua madre ce li potrà avere degli amici.
“Sediamoci qui” mi dice, indicando una sporgenza sotto alla postazione dei dj.
“Questo è parecchio triste” mi dice, riferendosi al tizio-solo-con-chitarra che sta cantando una cover di Please please please degli Smiths.
“Ma il volume rimarrà così o aumenta?”
“Mi vai a comprare una maglietta degli Shout Out Louds?”
“La ragazza-che-vende-magliette non è grassa. Sei tu che sei una femmina e anche un po’ anoressica perché bevi troppi caffè e quindi sei distorta. La ragazza è carina.”
“Ti ricordi che gli Amari, al mio primo concerto, mi hanno dedicato Conoscere gente?”
“Pensi di poter chiedere al cantante degli Shout Out Louds se mi dedica Impossible?”
Dopodiché si chiude in un silenzio assorto e guai a chi lo disturba.
Al concerto, io mi immaginavo chissà quali abbracci. Niente. Sta seduto. Fa una foto, una sola, con l’iPod. Tiene il ritmo con la testa, come se Very Loud fosse un remix di Guetta. Le conosce tutte, tranne quelle dell’ultimo disco. Che non ci piace troppo, né a me né a lui. Quindi facciamo gli snob-quelli-che-il-demo.
Io ballo, perché non mi frega un cazzo se lui è mio figlio e si vergogna. Ballo, perché sono anni che non ballo a un concerto e lui lo sa. Lui a un certo punto mi dice: i tizi dietro di te ti stanno guardando come se fossi pazza. Ma poi lascia perdere, perché io continuo a ballare.
Parte Parents Livingroom e io non la riconosco. “è perché è un sacco più chitarrosa e meno melodica rispetto al disco” mi spiega lui, il Piccolo Pichfork.
Mi sembra anche un po’ deluso dalla troppa chitarrosità. E da me, che non riconosco una canzone una. Cantiamo insieme Parents Livingroom, io gli chiedo per la quindicesima volta: hai caldo togliti la felpa, lui sbuffa e sembra dire lo saprò io se ho caldo, sono in grado di togliermi una cazzo di felpa quando cazzo pare a me, quindi ricomincio a ballare, goffa come solo una madre.
Poi arriva l’unico momento davvero luccicoso madre-figlio, di quelli che mi porterò dietro tutta la vita, sette anni dopo, e sette ancora , e altri sette. Arriva con le prime note di Impossible (ma la Sua Canzone preferita era Hard Rain e ovviamente col cazzo che gliel’hanno suonata. O forse sì e io non l’ho riconosciuta.).
Stavolta Impossible la riconosco io. E la riconosce lui. Dietro di noi ci sono le montagne, di quella volta a S.Vito che la sentivamo insieme, una recchia io e una lui, e intanto camminavamo piano, su per le Tre Cime, coi nostri scarponi, lui di pochi anni più piccolo, ma di millenni meno sgrunfante e ancora bambino. Un bambino che pareva uno stambecco, di fianco a me, su per i sentieri, e tutto quello che diceva sua madre era puro, e credeva ancora, dio se ci credeva, alla musica che io gli dicevo di ascoltare. Altroché Guetta.
Mi guarda, sulle prime tre note di pianola suonata dalla bionda.
Lo guardo, alle altre tre note di pianola.
Rimaniamo così, in questo sguardo un po’ consueto, un po’ nuovo che ci coglie nel bel mezzo di un concerto in mezzo al nulla ravennate. La canzone è meravigliosa, e lui mi sorride. Per la prima volta in tutta sera.
Dopo poi sono saluti con “i tuoi amici sudati”, fuga verso la macchina tra i polli, è tardi, cristo, e domani c’hai la verifica di scienze alla prima ora e non posso farti neanche entrare in ritardo.
“E così sarebbe il mio quinto…”
“Sesto, se contiamo gli yuppie flu acustici.”
“Ah già”
“ …”
“Conoscere gente sudata”
“Come dici?”
“No, niente”
“…”
“Ma secondo te come mi devo comportare con i miei compagni? Cioè, tutti sti concerti che ho visto, non è propriamente musica-che-si-ascolta”
“No, infatti. È musica che si mastica, come l’insalata di Cracco.”
“Magari Cremonini.”
“Magari Cremonini, sì”
“Ma da Cremonini ero il più giovane. Eravate tutte babbione infoiate.”
“Si chiamano ‘Cougar’, tesoro. Ricordati: cou-gar.”
“Comunque era bello.”
“Io mi sono innamorata del cantante”
“Tsé. Femmine…”
“Guarda che se da grande fai il cantante-di-gruppo-rock rimorchi un sacco”
“Chissene. Io voglio fare il camionista” dice guardando fuori dal finestrino dell’auto. C’è un tir che ci passa vicino vicino. E poi si addormenta così, in un attimo, nel suo cappuccio della felpa tirato su, perché stavolta ha freddo. E io, che sono sua madre, lo guardo far tutto da solo, farsi la tana calda con la felpa, tirar su col naso e addormentarsi così, come una cosa lieve, nel sedile passeggero, e non posso, mi rendo conto che stavolta non posso, scaldarlo in nessun modo.
[Due giorni dopo, sulla sua pagina facebook, c’è questa foto, la sua unica foto scattata, con la didascalia: “Concerto degli Shout Out Louds! Anche se non li conoscerà quasi nessuno…”]