Scrivere su una tragedia realmente accaduta è difficile. Ma dai. Scrivere un romanzo, su una tragedia realmente accaduta è ancora più arduo. Soprattutto, ovviamente, se la tragedia è ancora vicina. Ma ancor più difficile se questa tragedia è l’attacco terroristico dell’11 Settembre; l’ evento chiave dei nostri anni, iper-mediatizzato e rivestito dei significati più disparati, pare ormai suscitare quasi esclusivamente discorsi intrisi fino al midollo di retorica e banalità.
Non che non sia possibile parlarne in modo attento e originale, ovviamente (basta pensare a Molto forte, incredibilmente vicino di Safran Foer); per farlo bisogna però evitare la strada diretta, lasciare la tragedia sullo sfondo e far sì che la sua potenza si riverberi quasi da sola sulle vicende narrate. Per farlo bisogna parlare dell’11 Settembre esattamente nel modo in cui Il Caimano parla di Berlusconi: quello che viene raccontato non è l’evento o il personaggio in sè, ma ciò che ha prodotto sulla vita di persone più o meno comuni, che sia la perdita di innocenza e miopi certezze nella superiorià dell’american way of life o la miseria, economica, culturale, sociale, sentimentale dell’Italia nell’era Berlusconi. L’ultimo romanzo di Jay McInerney, The Good life (appena pubblicato in USA, e in uscita tra vari mesi in Italia con il titolo La bella vita) prova a prendere questa strada. Ci prova, e ci riesce.
Non ho mai capito perchè mi piaccia così tanto McInerney. Non può competere, per stile e personalità, con le grandi penne della letteratura contemporanea americana, e ha smesso anche da parecchio di avere l’appeal dello scrittore generazionale. Eppure, libro dopo libro, la sua prosa brillante e poco pretenziosa e le sue storie tendenzialmente monotematiche finiscono per conquistare in maniera inattesa e riservare non poche soddisfazioni, compensando il valore letterario forse non eccelso con una solidità e uno spirito decisamente rari.
Come da copione, la bella vita del titolo non ha a che fare con la Roma degli anni ’60 ma con la Manhattan di inizio terzo millennio; non ha che fare con attrici e paparazzi ma con l’alta borghesia della città più intellettuale e moderna d’America, in grado di essere contemporaneamente sia la capitale americana delle cultura che quella della finanzia. Un ossimoro che McInerney ha già esplorato in lungo e in largo, e da cui nonostante ciò riesce comunque a tirare ancora fuori qualcosa.
In The Good life tornano i protagonisti di Si spengono le luci (probabilmente il suo più bel romanzo -dopo Le mille luci di New York, di cui era tematicamente il seguito), ripresi, insieme ad altri personaggi, il giorno prima e quelli immediatamente dopo l’11 settembre. Giorni che cambiano molto, che vedono la nascita di una storia d’amore (la prima vera storia d’amore di McInerney, visto che il nostro di solito preferisce accanirsi sul suo naufragio), alcune scelte complicate e molti nodi che vengono al pettine. Il clichè delle coppie ricche e infelici che rischiano di sfasciarsi sotto i colpi della normalità e, contemporaneamente, dell’unicità dell’evento sembra terrorizzante, eppure il libro cresce con l’andare delle pagine e riesce a dipingere un ritratto convincente e avvincente della vita (bella o meno) che incontra la storia.
E alla fine non è chiaro -neppure dopo averlo letto- quale sia davvero la bella vita a cui si riferisce il titolo. L’incosciente ma infelice frenesia di fine anni ’90? O la nuova presa di coscienza di sè che segue la tragedia e costringe a rivalutare tutto? Per quanto mi riguarda, sospetto nessuna delle due; la minaccia che tutto ripiombi in normalità dopo appena qualche mese (un virus, la normalità) suggerisce che le cose siano ben più complicate. Se niente può durare, forse, tutto può durare. Non resta che capire come.
ommiodio !!!
devono essere i pollini !!!
però il discorso potrebbe reggere lo stesso… aiutooooooooo
Subliminal, Eleonor Rigby non è di McInerney ma di Coupland. Che è appunto, una delle più grandi penne della letteratura nordamericana. Di più, mondiale. Di tutti i tempi. Praticamente Dio.
Nonostante l’ultimo letto (Eleanor Rigby) non mi sia piaciuto granché, non sono d’accordo quando scrivi “non può competere, per stile e personalità, con le grandi penne della letteratura contemporanea americana”*.
Forse la personalità sì, manca un po’, però è una causa del suo stile così liscio, “semplice”, ma non innocuo, che ritengo essere un grande pregio !
*ovviamente bisognerebbe capire a chi ti riferisci.